Scarica il numero
«La morte è “un’esperienza non-esperienza”. Come esseri umani, siamo abituati a confrontarci con quanto abbiamo vissuto oppure che altri prima di noi o intorno a noi hanno sperimentato. La morte è qualcosa che nessuno ha mai attraversato e poi raccontato: resta impensabile e “non esperibile”. È questo lo scandalo che ci colpisce, la vertigine sempre nuova che proviamo quando perdiamo una persona cara o quando dobbiamo confrontarci con la comunicazione di una prognosi infausta che ci riguarda». La riflessione di Giorgia Cannizzaro, coordinatrice del Servizio di Psicologia della Fondazione Hospice Seràgnoli, parte da un dato di fatto fondamentale per comprendere come l’unica certezza che accompagna l’esistenza di ogni essere vivente, nonostante i millenni di evoluzione, le costruzioni culturali, le spiegazioni che scienza e biologia hanno saputo dare, gli strumenti messi in campo dalla filosofia e dalle fedi, continui ad essere assolutamente “impensabile”.
Quando capita, apre di fronte a chi resta un baratro in cui precipitano sicurezze, convinzioni e risposte. Il fatto che tutte le discipline umanistiche e scientifiche, si siano confrontate con il mistero di “questo paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore è tornato” (come lo definisce William Shakespeare in un passo dell’Amleto) non è altro, secondo Cannizzaro, che «un tentativo millenario di abbassare la soglia dell’angoscia: dipingere, scrivere, mettere in musica o in poesia la morte è quanto l’uomo può fare per provare a sublimarla, a renderla conoscibile, a superare il terrore dell’ignoto». Di fronte a una sfida così grande, far comprendere l’incomprensibile, qual è il ruolo di chi opera nel mondo della cura e affronta le domande di chi perde una persona cara? «Per noi il paziente e la famiglia costituiscono un unico nucleo», spiega Cannizzaro, «vi è una presa in carico complessiva del malato e dei caregiver, fin da subito. Mettiamo in campo un lavoro di accompagnamento personalizzato e ciò vale per il percorso di cura, ma anche per l’elaborazione del percorso di perdita. Non può esistere uno standard per affrontare un momento come l’avvicinamento al lutto, il suo compimento e la fase del post. Ogni soggetto porta un vissuto e dei bisogni diversi: il nostro compito è esserci, saper cogliere e interpretare il bisogno senza essere invadenti, restituire un senso di normalità e di umanità a questo momento, senza eccedere nella medicalizzazione».
Ogni caso ha una storia a sé ma, come conferma Cannizzaro, quando ci si trova di fronte a una perdita attesa – dopo un lungo periodo di malattia e un progressivo peggioramento delle condizioni – l’impatto emotivo sui familiari potrebbe essere meno violento: «In questi casi nei caregiver il lavoro del lutto inizia in modo anticipato rispetto alla perdita nella realtà, si inizia cioè a interiorizzare e a lavorare sulla perdita quando la persona cara è ancora in vita
e questo facilita il percorso, anche se – va ribadito – si tratta sempre e comunque di un evento molto difficile».
È un lavoro che richiede tempo e che l’équipe di psicologi della Fondazione Hospice segue anche nelle settimane e nei mesi successivi. «Diamo il tempo ai famigliari di vivere e gestire la parte emotiva iniziale, fisiologica, quella sofferenza “attesa” che si sviluppa nelle settimane successive alla perdita. Un confronto con il dolore che inevitabilmente la persona deve attraversare. Quindi, a circa due mesi dall’evento ci mettiamo in contatto con la famiglia, verifichiamo e valutiamo se questo percorso ha seguito uno sviluppo naturale e in quel caso ci congediamo. Se invece avvertiamo che ci sono dei nodi problematici non risolti, offriamo un servizio alle persone che ci sembrano in maggiore difficoltà programmando una serie di incontri di supporto psicologico. Anche in questo caso, si tratta di un percorso difficile da standardizzare, perché ogni persona ha una sua storia e un suo vissuto personale che richiede sensibilità, cura e disponibilità».