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Precedenza nel piano vaccinazioni, ma in coda nell’accesso alle terapie intensive (in scarsità di posti letto, bisogna ricoverare prima un giovane o un anziano?). Banditi dalla vita familiare e sociale (con gli infiniti appelli a tener lontani i nipoti dai nonni, per evitare di esporli a rischio contagio), ma poi disperatamente indispensabili quando la scuola è in lockdown, i genitori in smartworking a casa, e chi cura per almeno qualche ora al giorno i figli in età scolare?
Uno dei temi umani e sociali riapparsi sotto nuova luce, e avvolti da un groviglio di contraddizioni, durante il lungo periodo dell’emergenza Covid è quello degli anziani. Da un lato, definiti senza mezzi termini come «soggetti non indispensabili allo sforzo produttivo», dall’altro considerati quasi una «specie protetta», da chiudere in una riserva (nello specifico, le loro abitazioni) in quanto più fragili e quindi – dato anche il numero – una potenziale bomba a orologeria sanitaria e sociale in un momento in cui le strutture sono già sotto stress.
Come per tante questioni finite nel tritacarne dell’attualità, anche questo tema è stato affrontato più con uno stile da tifoserie contrapposte che non approfondito nelle sue sfumature di significato. «Le contraddizioni emerse con il Covid, invece, possono costituire un buon punto di partenza per porsi in maniera più profonda “La” domanda necessaria per provare a dare una lettura diversa al tema», prova a ragionare Rabih Chattat, medico e docente del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, «ovvero provare a chiedersi: chi è l’anziano?».
Come spiega il professore, se ancora oggi consideriamo “anziani” gli over 65 è grazie a una legge varata in Germania nel 1916 che, per normare l’età nell’ambito del diritto del lavoro, pose quella soglia come ipotesi di età pensionabile. È passato più di un secolo, e sostanzialmente lì siamo rimasti. Senza più ricordarci del fatto che l’aspettativa di vita media, nel 1916, era di 37 anni. È evidente come oggi, con un’aspettativa di vita media di 83-84 anni, una discreta fascia della popolazione che arriva ai 90 e un mercato del lavoro che è straordinariamente mutato, continuare a ragionare con parametri così anacronistici agganciando il ciclo di vita a un concetto – la fine dello “sforzo produttivo” – ormai così sfumato, genera un errore di prospettiva colossale. Dal quale derivano, a cascata, le errate interpretazioni e i paradossi che ciascuno di noi misura nella quotidianità, o semplicemente leggendo un giornale.
«Il primo errore, evidente, è quello di ridurre a un unico gruppo sociale persone che vanno dai 65 ai 90 anni e oltre, un range all’interno del quale ci sono infinite sfumature di possibilità, sempre ammesso che sia corretto, per individuare un gruppo sociale, basarsi sulla discriminante dell’età», spiega Chattat. «Ma c’è un elemento ancora più profondo che conduce questo discorso in una prospettiva sviante, ed è il frutto di una mentalità, di un pensiero consolidato, che pregiudica e limita altri spazi di ragionamento: generalmente, quando parliamo di “anziani”, mettiamo il corpo al centro, sviluppiamo una dimensione corporea del giudizio.
Quindi, se il metro di giudizio è la condizione fisica, lo stato di salute del corpo, allora è chiaro che l’età avanzata si configura come il periodo della vita nel quale emergono le limitazioni fisiche, la riduzione delle capacità funzionali, i diversi tipi di fragilità. E da qui, di conseguenza, deriva un vocabolario stigmatizzante, per cui alla parola “anziano” si associano i termini negativi come “problema”, “autosufficienza”, “assistenza”, in una spirale al ribasso senza fine. È una visione corporea del giudizio che abbiamo appreso “fin da giovani” e che ci accompagna per tutta la vita, anche e soprattutto quando siamo poi noi, gli anziani».
Chattat porta il ragionamento su un’esperienza comune, cui probabilmente facciamo ormai poca attenzione. «Mi colpisce sempre fermarmi a guardare le vetrine delle farmacie. Sono piene di prodotti “anti-aging”. Non creme per “distendere” o “rassodare la pelle”, ma “anti-età”, come se non il tono della pelle, ma l’età stessa fosse il problema, la malattia. Ecco, è ormai comune considerare la vecchiaia, complessivamente, una malattia».
Come il ragionamento del professore lascia intendere, quella corpo-centrica è una visione che va a escludere qualsiasi altro punto di vista, non prende in considerazione le componenti psicologiche, spirituali e sociali della persona. Ovvero tutti quegli elementi che non sono “corpo”, ma sui quali si basano altre scale di valore e quindi di giudizio. «Scale fondamentali per definire, o, sarebbe meglio dire, ri-definire, il ruolo degli anziani nel mondo, il loro valore sociale, che è anche valore economico, ma non si esaurisce in esso. Va oltre, è molto più “produttivo”».
Fin qui siamo al giudizio sociale, di contesto. C’è un altro elemento, molto più atavico e semplice nei suoi termini, che ci porta a spingere la vecchiaia al di fuori del campo visivo, a considerarla come un limite da porre sempre al di là del limite: «È che invecchiare fa paura», dice con semplicità il professore, «perché ci porta a fare i conti con la nostra finitezza: abbiamo paura di perdere la nostra autonomia, l’autosufficienza. E la paura ci spinge a rimuovere la questione, a rifiutare l’idea di invecchiare, anziché entrare nel merito di cosa vuol dire invecchiare, e come si può invecchiare bene, dare valore a questa fase della vita».
È questa la riflessione da porre al centro del ragionamento presente, soprattutto se si vuole riflettere davvero sul domani di un paese, l’Italia, e di un continente, l’Europa, anagraficamente vecchi. Strade per mettere al centro la vecchiaia come produttrice di valore – umano e sociale – si stanno mettendo in campo. In Svezia, Finlandia e Olanda si lavora sul concetto di autodeterminazione, di “pianificazione anticipata” della vecchiaia: «Anziché il “non ci voglio pensare”, o “quando sarò troppo vecchio per decidere ci penserà qualcun altro”», spiega Chattat, «si sviluppano programmi di supporto informativo per aiutare a pianificare come la persona vorrà vivere giunta a una certa età».In Canada ha fatto notizia il progetto che ha unito i bambini ospiti di un brefotrofio agli anziani ospiti di una casa di riposo, una unione di due umanità fragili che ha portato a una restituzione reciproca di legame, di affetto e di apprendimento. In Danimarca e in generale nel Nord Europa ci sono esperimenti positivi di ripensamento dell’abitare, con soluzioni di co-housing e concezioni di urbanistica sociale attente ai bisogni – materiali ma soprattutto sociali – di comunità di popolazione anziana.
La stessa Onu ha promosso il decennio 2030 come decade dell’“healthy aging”, dell’“invecchiare bene”, se volessimo tradurre senza rientrare nel gergo sanitario. È la strada giusta? Chi vivrà (possibilmente, a lungo), vedrà.
Qualche spunto per provare a leggere il mondo degli over da una prospettiva diversa
IL LIBRO
L’UOMO CHE METTEVA IN ORDINE IL MONDO Fredrik Backman
Alla soglia del sessantesimo anno di vita, la ruotine perfetta di Ove
– personaggio burbero, metodico, misantropo, solitario – viene sconvolta dall’incontro-scontro con una famiglia di immigrati vitale e sopra le righe, che con il suo portato di umanità costringe il protagonista a rifare i conti con la propria traiettoria di vita già tutta definita e prederminata. Facendogli scoprire che la bellezza dell’umanità sta nell’imperfezione e nell’imprevisto. Edito da Mondadori.
IL FILM
NON È MAI TROPPO TARDI Rob Reiner, 2007
Questo film resta il riferimento insuperato per la capacità di mixare leggerezza, profondità e comicità. Protagonisti Jack Nicholson e Morgan Freeman, compagni di stanza in ospedale tra i quali, dall’iniziale fastidio, scatta una travolgente complicità. Per entrambi una diagnosi infausta è la spinta a fare del tempo rimanente un tempo di vera qualità, “spuntando” una lista di cose non fatte che consentono a entrambi di vivere con sorpresa stralci di vita inattesi.
LA SERIE TV
THE KOMINSKY METHOD Netflix
L’avanzare dell’età, i suoi problemi e le soddisfazioni attraverso l’interazione magistrale di due grandissimi attori in là con gli anni, Michael Douglas e Alan Arkin, i cui personaggi devono fare i conti in modo dolceamaro con carriera e vita che stanno volgendo al termine.
Douglas è Sandy Kominski, un insegnante di recitazione che ha avuto un breve momento di fama come attore, mentre Arkin è il suo disilluso agente.