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Quando si suona alla porta del suo studio, mentalmente si è preparati a porsi silenziosamente al cospetto della lezione del “Maestro”. Gli ingredienti che spingono a dare per scontata questa dinamica ci sono tutti: 94 anni, oltre 70 dei quali fatti di fotografie e sperimentazioni artistiche, un lungo elenco di mostre e pubblicazioni, frequentazioni e amicizie che hanno attraversato la storia dell’arte e della cultura: da Peggy Guggenheim a Emilio Vedova, ai più celebri galleristi. E invece la sorpresa, spiazzante, è che in Nino Migliori fin dal primo saluto non c’è niente di paludato, nessuna condiscendenza né spocchia. «Ma quale arte, ma che maestri. Oggi sono tutti maestri… per carità!», dice con quell’ironia divertita con cui affronta tutta la conversazione. Durante la quale spesso i ruoli si ribaltano, è lui a far domande, a voler sapere, a curiosare tra i pensieri dei presenti. Forse perché per lui è più importante non perdere nemmeno un’occasione per apprendere qualcosa di nuovo; a raccontare ci penserà poi, e non lo farà a parole. «La fotografia è un linguaggio, è una forma di scrittura, uno strumento per dire qualcosa – se hai qualcosa da dire – e anche per indagare le cose e le persone. Io ho iniziato a fotografare non perché volevo fare l’artista, ma perché da subito mi sono accorto che era il modo attraverso il quale potevo scoprire ciò di cui ero curioso e riuscivo a raccontarlo agli altri. Non sono una persona colta e la fotografia mi consente di esprimere le mie idee e i miei stati d’animo in maniera più facile, immediata». Anche quando fa affermazioni di questo tipo – lui, che è uno dei pilastri della cultura visiva italiana, e che nei suoi lavori mette ogni volta un fondo di ricerca e di sperimentazione straordinario – non lo fa con affettazione, ma con quella semplicità con la quale affronta piccoli e grandi progetti, incontri, idee.
Non c’è niente di artefatto in Nino Migliori, seduto a raccontare e a raccontarsi in una delle due grandi stanze del suo studio, dal soffitto altissimo e con scaffali alle pareti che conservano in un ordinato disordine cataloghi, scatole di negativi, plichi di fogli, cornici, oggetti. Ha l’immediatezza, la semplicità e la freschezza di un bambino, un po’ birichino e continuamente curioso. I suoi occhi non sono mai fermi, ma sempre alla ricerca di qualcosa, di una inflessione del discorso all’interno della quale inserirsi per una battuta spiazzante, o per una, altrettanto spiazzante, perla di saggezza, che rotola però leggera, senza enfasi. Un bambino di 94 anni che ha una voglia inesauribile di giocare e una curiosità che non si accontenta mai. «Voglio campare fino a 109 anni – almeno uno in più di Gillo Dorfles, per batterlo – e fino a quando avrò la fortuna di poter usare il cervello continuerò a fare fotografie per capire com’è il mondo che ci circonda».
Una soggettività che è prima di tutto responsabilità, quella che il fotografo si assume nel “dire la sua” ogni volta che pigia il bottone del click. La fotografia infatti, per Migliori, «è sempre l’espressione di un punto di vista: quello del fotografo. È una narrazione fatta da una persona che ha sentimenti, idee, idiosincrasie, passioni che si riflettono nelle situazioni che sceglie di rappresentare e interpretare. La fotografia non è mai la realtà, è come io vedo e voglio raccontare la realtà. Ognuno di noi interpreta la realtà attraverso la propria cultura, che come dico spesso è ciò che rimane quando si è dimenticato tutto. Quando si fotografa si sceglie una porzione di mondo che già ci appartiene e che viene letta attraverso il filtro di ciò che ognuno di noi è».
Un punto di vista che diventa anche dialogo e relazione con il soggetto, com’è evidente nell’ultimo progetto di Migliori, dal titolo Via Elio Bernardi, 6. Ritratti alla luce di un fiammifero: 600 scatti realizzati tra il 2016 e il 2021 da Nino con la sola illuminazione cangiante della fiammella di un fiammifero a persone e personaggi che sono passati per il suo studio, situato all’indirizzo che dà il titolo al progetto. Un lavoro che ha dato vita a una mostra (svoltasi al Museo Civico Archeologico di Bologna), a un corposo catalogo e a un’iniziativa a favore della Fondazione Hospice Seràgnoli. Un lavoro che dice tanto del modo con cui Migliori affronta i suoi progetti, quella curiosità per l’altro che lo muove, sempre. «Adesso c’è questa moda dei selfie, che a volte degenera, ma in effetti c’è qualcosa di interessante in queste rappresentazioni, così come nella proliferazione della fotografia digitale. Tanti miei colleghi fanno gli schizzinosi, criticano questa mania di fotografare continuamente che ha contagiato tutti, e invece io la trovo una cosa interessante, bella. La fotografia è diventata davvero un linguaggio universale e alla portata di tutti». Schiere di Maestri o – come dice lui – colleghi, che invece difendono strenuamente la purezza della foto “da fotografo” rispetto alla massa informe degli scatti amatoriali, si stanno rivoltando nella camera oscura. Migliori prosegue spedito. «In fondo, anche nei miei ritratti a lume di fiammifero c’è semplicemente la voglia di fissare un incontro con l’altro in un’immagine. Qui vengono tante persone, a un certo punto mi sembrava interessante provare a raccontare questi incontri, fermare in un’immagine la bellezza e l’importanza di parlare, condividere. Dare una forma a questa ospitalità.
Un tempo l’ospite era sacro, e quella sacralità per me è rimasta ancora oggi. Perché ospitare vuol dire dare accesso al proprio mondo inteso sia come spazio fisico sia come spazio di idee e sentimenti innescando così una possibilità di scambio. Non so se sia un progetto artistico, certamente è stato un percorso di forte comunicazione, che mi ha messo in una relazione particolare con tantissime persone, anche se per quei pochi secondi, sei, sette al massimo, che dura la fiamma di un fiammifero. La fiamma, avvicinata o allontanata dal volto anche di pochi centimetri, creava un potente gioco di luce e di ombra dove i particolari venivano esaltati o cancellati dando origine a esiti completamente diversi».
Mentre racconta di questo progetto l’occhio torna a farsi inquieto: si capisce che per Migliori quel che è fatto è un capitolo chiuso, è un pezzettino di esperienza in più, ma non c’è da montarci sopra retorica o celebrazione.
È più interessato a curiosare sui prossimi passi. Marina Nella Truant, Direttore della Fondazione Nino Migliori, ci racconta che Nino si appunta idee di progetti su foglietti volanti, conservati in un cassetto della sua scrivania. Ogni tanto apre quel cassetto, pesca un foglietto e inizia un nuovo progetto. Lo provoco: c’è un momento in cui si tirano le somme, si dà un giudizio al proprio percorso artistico? «Adesso che mi ci fa pensare, sì, credo che quel momento ci sia», inizia serioso. Poi compare la fiammella dell’ironia: «Ci penserò quando sarò arrivato più o meno a 109 anni.».