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La mia vita è un continuo viaggio, fatto di tanti luoghi, di tanti incontri. Ma so che c’è un posto che, più di ogni altro, mi fa comprendere come nell’ambito delle cure palliative si stia facendo qualcosa di grande, di unico. E questo posto è la Fondazione Hospice Seràgnoli, con le sue strutture di cura e la sua Accademia. Mi sento a casa, come medico, come palliativista, come persona che crede in questo mestiere e nell’importanza di insegnarlo agli altri, ai giovani soprattutto, nel modo migliore e più compiuto. La Fondazione è riuscita in un piccolo miracolo che – ripeto – rappresenta un modello unico: costruire una realtà, un’équipe, capace di realizzare una combinazione vincente tra oerta clinica d’eccellenza, per dimostrare come si può curare il paziente e la sua famiglia, e un ottimo livello di formazione che consente di far crescere i professionisti in cure palliative del futuro. In genere, le Fondazioni che operano in questo settore scelgono di specializzarsi in una strada o nell’altra, oppure di occuparsi di sensibilizzazione e raccolta fondi.
Come recita un detto italiano, spesso capita che «chi sa fa e chi non sa insegna». Nella Fondazione Seràgnoli, invece, si incontra chi sa, chi fa e chi pure insegna. Un meccanismo che funziona con grande armonia: lo trovo sorprendente. Anche perché se una persona insegna e basta può permettersi di dire senza dover dimostrare: è la strada più semplice. Quando invece insegna e fa, deve dimostrare agli studenti e al mondo come si fa, e che lo si fa veramente. Le cure palliative fondamentalmente sono legate alla cura del paziente e della famiglia e la Fondazione Seràgnoli – con l’attività d’ambulatorio, gli hospice, l’Accademia – rappresenta un luogo in cui si cura, si impara, si fa ricerca, in un contesto che mette comunque, e per ciascuno di questi ambiti, al centro la persona malata e la sua famiglia. È un modello che può e deve essere esportato perché ispiri altre realtà in Europa, nel mondo, per far capire che per “insegnare” bisogna contemporaneamente “fare”. Il mio sogno è che tante università, tanti ospedali universitari in Italia imparino questo metodo di affrontare e insegnare le cure palliative.
Lo studio, la trasmissione delle conoscenze, sono aspetti particolarmente delicati, che mi stanno a cuore. Quando l’apprendimento è staccato dalla pratica, l’errore resta in capo alla teoria. Al massimo, si viene bocciati a un esame. Ma quando si comincia a trattare il paziente, l’errore riguarda il paziente. È per questo che un percorso di apprendimento sul campo è fondamentale per acquisire competenze reali e adeguate, soprattutto nell’ambito umanistico della comunicazione e della relazione. Per questo è necessario poter contare sulle strutture in cui inserire chi deve imparare. E l’unico modo di imparare è osservare, fare e poter valutare i risultati. La pratica si insegna dove la si fa.
Poi, qui, si trova espresso al meglio un approccio – chiamiamolo così – tipicamente italiano alle cure palliative e all’attività dell’hospice. La modalità è quella… dell’abbraccio, non mi viene un’altra parola per descrivere questo atteggiamento. È un’attitudine che coinvolge tutta l’équipe dei medici e degli operatori che si rapportano al paziente e alla sua famiglia come se fossero un unicum. Stringendo un rapporto molto personale, con un investimento emozionale forte. In Italia le cure palliative sono interpretate dalle équipe come un lavoro d’amore, non come un servizio.
Il che richiede evidentemente uno sforzo maggiore, un maggiore investimento personale, oltre che professionale, quindi una fatica in più. Ma per il paziente e per i suoi cari questo non ha paragoni: la persona assistita sente davvero di poter contare su una sorta di “famiglia allargata” ancora più grande. Un atteggiamento che produce anche un effetto placebo: in questo contesto di amore per la persona che si cura, anche il medicinale e la terapia funzionano meglio perché non sono semplicemente parte di una procedura clinica. Il contesto positivo migliora le aspettative del malato. Fuori dall’Italia si stabilisce una distanza professionale maggiore: il target delle cure palliative è il paziente; non è così diuso accogliere la famiglia all’interno del sistema di cura. Senza dubbio costruire intorno al singolo in difficoltà la forza della “famiglia professionale” e affrontare il percorso di cura facendo riferimento ai legami personali del paziente, è molto italiano, probabilmente vi viene naturale. Un elemento difficile da “esportare”, ma vale la pena provare!