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In principio fu la 106, la Legge Delega che, nel 2016, ha sancito in maniera ufficiale la riforma organica del mondo
del Terzo Settore italiano. Seguono, di lì a un anno, un Decreto relativo al Servizio Civile universale e alla regolamentazione del 5xmille, uno che revisiona e rilancia la disciplina delle imprese sociali e, infine, un terzo che conduce all’entrata in vigore del Codice del Terzo Settore, un Testo Unico composto di 104 articoli che integra, armonizza e sostituisce la stratificazione di norme accavallatesi nei decenni. Con il Codice si è avviata l’istituzione di uno strumento fondamentale, il Registro Unico Nazionale del Terzo Settore (Runts), che unifica i diversi strumenti di registrazione preesistenti.
Ci sono due modi per comprendere quanto e come l’ultimo decennio abbia rappresentato un momento di cambiamento radicale per il Terzo Settore italiano: proseguire questo elenco di leggi e decreti all’infinito, oppure alzare lo sguardo e concentrarsi su quello che è il cuore della questione. Secondo Stefano Zamagni, una delle
voci di riferimento globali su temi dell’economia sociale, si può riassumere in una domanda, al contempo semplice e complessa: «Qual è il modello di ordine sociale che oggi vogliamo strutturare nel nostro Paese?». Spiega Zamagni: «La seconda modernità, nella sua furia costruttivista, ha fatto di tutto per neutralizzare la terziarietà: tutto doveva rientrare o nello Stato o nel Mercato o in entrambi, a seconda delle simpatie ideologiche. Gli Enti del Terzo Settore erano considerati soggetti per la produzione di quei beni e servizi che né lo Stato né il Mercato avevano l’interesse oppure la capacità di produrre. Rispetto a una storia basata su un sistema bipolare, ecco che ora, con la Riforma, lo scenario muta radicalmente: il legislatore ci dice – finalmente! – che i tempi sono maturi perché si riconosca nero su bianco che i poli su cui si basa lo sviluppo della nostra società sono tre, Stato, Mercato e Comunità».
Un salto di pensiero che ha portato al riordino organico dei “binari” legislativi e fiscali all’interno dei quali oggi quella ricchissima e preziosa risorsa costituita dagli oltre 360mila enti non profit che operano in Italia può basare la propria azione. «Si tratta di un cambio culturale fortissimo», conferma Luigi Bobba, uno dei padri storici della riforma e del suo iter attuativo: «Viene data forma legislativa al principio di sussidiarietà, entrato nella nostra Costituzione nel 2001, con l’articolo 118. È la stella polare che ha guidato lo sviluppo di tutta l’architettura legislativa.
La riforma ha proceduto con un passo forse un po’ troppo lento, ma oggi la nostra legislazione in materia è la prima in Europa a comprendere in maniera organica tutte le famiglie di quel mondo che chiamiamo Terzo Settore. Un elemento importante è il Registro Unico degli ETS, che mette fine alla frammentarietà e consente una grande trasparenza». Un passo decisivo di questo percorso è costituito dalla sentenza 131 emessa dalla Corte Costituzionale nel giugno 2020, un punto di svolta (definitivo) nei rapporti tra la Pubblica Amministrazione e il Terzo Settore. La sentenza dà pieno riconoscimento ai temi della co-progettazione e della co-programmazione, intesi come modalità privilegiate di relazione tra sfera pubblica e sfera del privato sociale. In pratica, la sentenza che toglie la Riforma dal mondo della teoria calandola nella realtà quotidiana dell’impegno (e, spesso, della fatica) con cui gli enti si devono confrontare con la Pubblica Amministrazione, a tutti i livelli.
«Il tema della co-progettazione e della co-programmazione è decisivo», sottolinea Zamagni «apre uno scenario nuovo, perché dà agli ETS un potere di intervento importante, ma anche una grande responsabilità. E qui iniziano le riflessioni: il Terzo Settore possiede le competenze, ma soprattutto il coraggio, per far valere questa possibilità di attivazione nei confronti dell’Ente pubblico? Quanti degli Enti sono oggi davvero capaci di confrontarsi e dialogaresenza subalternità con un assessore o il direttore generale di un comune o di un ministero? Quel che va fatto oggi con le realtà del Terzo Settore è un grande lavoro di pedagogia imprenditoriale che li stimoli e li spinga a osare».
Anche per evitare che si crei un divario importante tra le diverse non profit. «Per questo bisogna dare vita a forme di collaborazione tra realtà più evolute e realtà che devono ancora crescere, ad esempio avviando modelli di reti territoriali secondo l’esperienza dei distretti industriali di 20-30 anni fa. Così si preservano le identità dei singoli soggetti, consentendo loro di poter contare sul supporto della rete per aspetti specifici, rispetto ai quali si trovano a essere più fragili».
Bobba concorda. «L’aspetto delle reti associative, punto ancora in via di applicazione, è fondamentale. Sono un catalizzatore di necessità e opportunità, un reticolo promozionale del mondo associativo, ma anche uno strumento per mitigare quel sentimento di incertezza e paura che molte realtà stanno attraversando rispetto a un cambiamento così importante. Senza violare quella caratteristica positiva del Terzo settore italiano che è la ricchezza di esperienze e di soggetti». Oltre a svolgere un ruolo fondamentale, dalla sanità all’assistenza, dall’educazione alla ricerca, il Terzo Settore – in un’epoca di riferimenti sociali, politici, ideali deboli – è un ambito di consapevolezza civica e sociale, un vero e proprio spazio di cittadinanza. «Il tessuto italiano della gratuità è ancora molto vivo e produttivo», osserva Bobba, «e si va nella direzione auspicata in fase di progettazione della Riforma, ossia di facilitare il coinvolgimento di un numero sempre maggiore di cittadini nello sviluppo di finalità civiche e di solidarietà sociale».