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«Innanzitutto, ragioniamo sulla grammatica, sul lessico. Fare questo ragionamento partendo dalla negazione di una condizione, anziché trovare le giuste definizioni di tutte le altre, mi pare sbagliato in linea di principio».
L’esordio con cui Massimo Costantini, medico palliativista e ricercatore, affronta il tema dell’allargamento dell’eleggibilità alle cure palliative anche per i pazienti “non oncologici” (eccolo, quel “non”) trascurando in prima battuta l’elemento tecnico-sanitario, per concentrarsi sugli aspetti culturali. Una cultura medica e – a cascata – appartenente alla società tutta che sta attraversando una trasformazione importante che riguarda il senso profondo delle cure palliative.
«Il salto di qualità è avvenuto e avviene quando il medico, il palliativista in particolare, smette di guardare il paziente incasellandolo in una patologia, oncologico-non oncologico appunto, e inizia a ragionare partendo dai suoi bisogni e dalle risposte che proprio in quanto medico sa dare a questi bisogni», spiega Costantini. «Grazie anche alla ricerca, che ogni giorno sa dirci qualcosa in più anche sulle necessità e sul sentire dei pazienti, diventa evidente che ci sono dei bisogni comuni associati a traiettorie diverse di malattia, rispetto ai quali viene meno il confine che fino ad ora era stato segnato tra pazienti oncologici e pazienti portatori di patologie croniche degenerative in fase avanzata».
Come spiega Costantini, con un necessario excursus storico, le cure palliative nascono e si radicano nell’ambito oncologico negli anni ’60, gli stessi durante i quali si cominciano a impiegare le prime cure chemioterapiche e radiologiche, che danno la possibilità di combattere in maniera attiva certi tipi di tumore. Ma in questa rivoluzione, che accende possibilità e speranze, c’è anche un altro lato della medaglia: quando le cosiddette “cure attive” falliscono, la medicina non ha più niente da dire a questi pazienti, che si trovano di fatto abbandonati. È lì che storicamente subentrano le cure palliative ed è per questo che si “specializzano” con questo tipo di pazienti.
Con gli anni, però, succedono diverse cose. La medicina evolve e, con essa, la consapevolezza sulle potenzialità inespresse delle cure palliative.
«Si comprende per esempio che i bisogni di cure palliative sono presenti anche prima della fine della chemioterapia, quando il paziente può ancora beneficiare di terapie attive, e così i palliativisti cominciano ad affiancare oncologi e radiologi nella presa in carico del paziente. E si comprende che molti dei problemi che si trovano ad affrontare i pazienti oncologici sono comuni a pazienti con altre malattie non guaribili, croniche, con andamento progressivo e con percorsi che non sono così diversi dai tumori. Soprattutto, si comprende che i pazienti portatori di queste patologie, oltre a specifici problemi di natura fisica, hanno bisogni di natura psicologica, spirituale, relazionale, sociale tanto quanto i pazienti oncologici o, in alcuni casi anche in misura maggiore, dal momento che spesso si tratta di storie di malattia che persistono per un arco temporale più ampio. Se riflettiamo sull’approccio olistico che caratterizza le cure palliative, è evidente come la distinzione oncologico-non oncologico abbia poco significato».
L’area di quel “non” è infatti piuttosto vasta e al momento include l’Insufficienza Respiratoria Cronica (BPCO e Fibrosi Polmonare) l’Insufficienza Cardiaca Cronica, l’Insufficienza Renale Cronica e la Malattia di Parkinson, l’Insufficienza epatica e le diverse patologie neurodegenerative, fino a tutte le demenze…
Questo allargamento pone una questione: se tra gli specialisti medici in ambito oncologico, pur con qualche differenza, la consapevolezza della funzione delle cure palliative si è fatta spazio, non sempre e non in maniera così diffusa questa “opportunità” è presente nella cultura di altri specialisti che lavorano sulle diverse patologie cronico-degenerative.
«La domanda di cure palliative è sempre una domanda mediata da professionisti, è un percorso che nella stragrande maggioranza dei casi nasce in ospedale», osserva Costantini: «nei momenti in cui nelle strutture ci sono palliativisti bravi, competenti, attenti, capaci di fornire riscontri efficaci, ecco che queste risposte entrano nella cultura della struttura, la collaborazione tra specialisti e palliativisti prende forma in maniera armonica. Il problema è che, in Italia, la maggior parte dei palliativisti svolge il suo lavoro in hospice, o nell’assistenza a domicilio. Viene a mancare quella possibilità – che magari è anche solo una chiacchierata al caffè in reparto – di dialogo tra professionisti che contribuirebbe enormemente a diffondere la consapevolezza sulle cure palliative».
Oltre alle possibilità di condivisione, ci possono essere altre spinte, magari normative, che favoriscano questo allargamento? Costantini non ha dubbi: «Non abbiamo bisogno di leggi, ma di buone pratiche. Le leggi ci sono, ma finché non diventano cultura diffusa non arriveranno mai a far del bene al paziente.
Le Regioni e le articolazioni operative che portano la sanità sui territori devono acquisire una visione e una consapevolezza sull’importanza dei percorsi palliativi che è ancora troppo a macchia di leopardo e dipende ancora troppo dalle sensibilità personali dei singoli dirigenti. Bisogna lavorare sulla formazione, tanto dei medici quanto di coloro che gestiscono la governance della sanità».