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«La poesia ha un grande dono: lavora sulla sintesi, per dire tanto. In questo senso, la malattia è un luogo di poesia, perché la sofferenza misura le parole e le parole assumono un valore denso di significati». Basta questo per comprendere perché il poeta Davide Rondoni nell’incontrare una realtà come l’hospice riesca a stabilire un’immediata e profonda sintonia. L’occasione
concreta di incontro con la Fondazione risale al 2007, quando Rondoni si occupò della curatela dell’antologia “La poesia è il tempo”. Ma la consonanza tra la realtà dell’hospice e il poeta forlivese va oltre questa occasione professionale. È diventata un motivo di riflessione più profondo.
«Negli hospice si opera su un aspetto che per un artista è fondamentale: il confronto quotidiano con la verità del limite», spiega Rondoni. «L’uomo è un essere in bilico tra il limite e l’infinito, è in questa dinamica che ciascuno di noi si gioca la propria esistenza. È il tema della poesia “L’Infinito” di Giacomo Leopardi: l’uomo vive con di fronte una siepe, oltre la quale sa che c’è l’infinito e per
viverlo lo mette in versi. Quello che ho visto nell’hospice è qualcosa in più, che mi ha colpito: è la presa in carico del limite, ovvero
vedere qualcuno che si mette a disposizione degli altri su quell’aspetto specifico dell’essere umano – il dolore – che nell’epoca contemporanea è invece vissuto come un tabù, che subisce una costante censura. Prendersi cura del limite significa dare spazio a una delle qualità umane più alte: un uomo è tale solo se sa prendersi cura del limite, suo e magari degli altri. Soprattutto oggi, in un contesto e in una società che invece hanno culturalmente abolito i limiti, dove tutto pare possibile, fattibile, ottenibile. Incontrare l’Hospice Seràgnoli significa uscire dalla finzione in cui viviamo la maggior parte del nostro tempo e rimettere piede nella realtà». Una realtà estremamente concreta.
«Quel che conquista», dice, «è la professionalità con cui qui si affronta la realtà del limite. Da poeta, quando pensi al tema della cura, della malattia, sei portato a considerare più il lato emozionale ed emotivo, a credere che prendersi cura del limite significhi mettere in campo prima di tutto la compassione. Invece qui vedi la professionalità, l’intelligenza, la competenza al servizio di questo aspetto profondamente umano. È sorprendente». Tanto che anziché luogo appartato, quasi “tenuto nascosto”, per Rondoni l’hospice dovrebbe manifestarsi maggiormente.
Rompendo quel tabù accennato sopra. «Dall’epoca in cui l’uomo ha ritenuto di essere il signore dell’universo, è iniziata una progressiva emarginazione dei posti che gli ricordano quanto in realtà sia fragile e limitato: gli ospedali, o i luoghi come gli hospice, portano in primo piano lo scandalo del limite. A mio parere, dovrebbe essercene uno in ogni piazza cittadina, per costringerci a fare i conti con noi stessi ogni volta che usciamo di casa». Visto il suo mestiere la domanda – pur banale – viene spontanea: nasce più poesia dal dolore o dalla gioia? «In entrambi i casi si fa esperienza dell’umano e quindi sono entrambi ambiti da cui scaturisce poesia», risponde. «La poesia nasce sempre nel campo del vero.
Dove c’è autenticità, c’è poesia. Dolore e gioia sono forse le due espressioni più autentiche dell’umano; anche se siamo abituati a considerarle come condizioni poste alle estremità, per me sono complementari, necessarie l’una all’altra. Pensiamo anche ad alcune espressioni di uso corrente: si dice “mi piaci da morire”, non “mi piaci da vivere”. Insomma, dolore e gioia sono due estremi che si toccano, che comunicano».
Comunicare, mettere al centro la parola: ecco un altro aspetto che avvicina il “mestiere” del poeta alla quotidianità dell’hospice, al rapporto con il paziente fatto anche di ascolto e dialogo. «La parola è lo strumento principale del rapporto con la realtà. Quando la parola tace, o finisce, finisce il nostro legame con il mondo», dice netto Rondoni. «Capisco quindi quanto sia importante la parola nelle dinamiche dell’hospice e credo che anche quando la parola qui lascia necessariamente spazio al silenzio non sia mai un silenzio vuoto, ma sia comunque carico di significati. Ora che ci penso, l’hospice è il contesto ideale per riabituarsi alla parola. In un’epoca caratterizzata dal parlare distratto, ridotto a chiacchiera, c’è un luogo in cui la chiacchiera non ha cittadinanza, ma si recupera il valore di ogni singola parola».