Scarica il numero
La cura è una tra le “cose umane” più necessarie: siamo esseri ontologicamente mancanti, in quanto veniamo al mondo senza volerlo e senza una forma data. Mancanti d’essere, siamo legati alla necessità di trovare un senso al nostro vivere e arrischiati nel cercare il modo migliore per fiorire appieno.
Un percorso che non è facile né tantomeno lineare: la fragilità e la vulnerabilità sono nostre condizioni d’essere e le ferite del corpo e dell’anima sono compagne del cammino, insieme al nostro bisogno di relazioni con l’altro.
Questa verità essenziale della nostra esistenza è tanto evidente nella quotidianità, quanto spesso sfuggente al lavoro del pensiero. Il compito della filosofia è dare parola a ciò che, senza parole, si dà nella quotidianità dei nostri gesti, delle nostre esperienze, del nostro vivere. Come diceva John Dewey, non c’è nulla di più pratico di una buona teoria. Preferisco dire non che la cura si traduce in leggi e norme, tipiche del discorso morale, ma nella ricerca del bene, ossia in un’etica che non è mai riducibile a pratiche normate e standardizzate, ma che chiede sempre una vigile e critica riflessione su ogni decisione e azione conseguente.
L’evoluzione della medicina ha condotto a un accumulo enorme di conoscenze sul corpo umano e sulla sua salute, così numerose e complesse che la medicina ha dovuto specializzarsi. Tale processo ha portato però a una iperspecializzazione così estrema che rischia di non vedere la persona nella sua interezza, soggetto portatore di esperienza, di domande, di “spirito”. Allo stesso modo la tecnica sanitaria è diventata avanzatissima, ma rischia di ridurre l’intera medicina a tecnica, quando invece dall’inizio del pensiero occidentale la si è sempre considerata un’arte, “ars medica”. Considerarla arte significa non ridurla a un insieme di procedure, ma a una relazione che chiede tutta una ermeneutica intersoggettiva, un dialogo aperto, una vigilanza continua.
Una umanità che è presente nel paziente, ma anche nel medico, che non è infallibile, non è una macchina insensibile, ma una persona con le sue domande, dubbi, valori, paure ed emozioni.
Si potrebbe dire che quando non c’è più nulla da fare, in realtà c’è ancora tutto da fare. Quando cioè la potenza delle tecnicalità mediche deve arrendersi di fronte all’incurabilità di una malattia o all’esito infausto di una diagnosi, si apre il mondo della cura più radicale, quella che ha a cuore la vita, in ogni momento, anche negli ultimi istanti, che, forse, sono i più preziosi perché possono dare compimento a un’esistenza. Il dolore diventa non solo un nemico da combattere ma anche un’esperienza da rielaborare, la dignità dei pazienti custodita insieme a loro, le relazioni che li costituiscono accompagnate insieme a loro fino al momento del distacco.
Le cure palliative in questo hanno fatto e stanno facendo scuola. Ci ricordano, pur nell’estremo del loro campo di azione, come c’è sempre molto da fare anche quando sembra impossibile (e magari insensato) agire, anche in altri contesti come quello educativo e politico.
La cura non è solo azione terapeutica, riparatrice di ferite. La cura è avere a cuore la vita e la sua fioritura: questa è la cura educativa. In ambito pediatrico non si può dimenticare che oltre a un paziente c’è un bambino che sta fiorendo, sta cioè cercando il suo posto nel mondo e il modo migliore per divenire se stesso. Aver cura di un bambino-paziente è aver cura di un bambino-educando. Se ampliamo lo sguardo poi alla pedagogia, cioè alla scienza dell’educazione, il compito è ancor più grande, ma più fondativo: accompagnare i bambini nella loro fioritura significa anche accompagnarli a comprendere i limiti dell’umano, a riconciliarsi con le ferite che possono colpirci tutti e a trovare dentro i limiti di ogni esistenza quella possibilità comunque di esserci, cioè di divenire se stessi con e per gli altri.