Scarica il numero
«Considerato di quali proporzioni sia il mutamento spirituale che la malattia produce, i territori vergini che allora si dischiudono (…) appare davvero strano che essa non figuri, insieme all’amore, alle battaglie, alla gelosia, tra i temi principali della letteratura».
Questa premessa esplicita una profonda verità che Virginia Woolf descrive magistralmente nelle trenta pagine di Sulla malattia, una delle sue opere meno note, stesa nel settembre del 1925. La scrittrice si trovava in quel momento costretta a letto dalle conseguenze di un grave svenimento che l’aveva colta durante una festa a casa della sorella. Non un episodio isolato, ma una delle tante tappe dolorose di una vita vissuta (fino al tragico suicidio) sull’orlo della patologia, tra crisi d’ansia e depressione. Una condizione provante, se non disperante, che non toglie però a Virginia Woolf la capacità e il gusto di affrontare un tema così complesso con una leggerezza e addirittura un’ironia che mette a nudo la retorica che avvolgeva (e ancora avvolge) il mondo della malattia.
Anzi, del malato in quanto individuo. Un concetto messo al centro fin dal titolo di questo saggio, On Being Ill (alla lettera, «Sull’essere malato»), titolo dal significato più forte rispetto alla sua traduzione nell’edizione italiana («Sulla malattia»); esprime infatti meglio quella condizione totalizzante che è la malattia, per come la scrittrice la affronta e racconta. Quella di Virginia Wolf non è infatti una riflessione «sulla malattia», ma «sull’essere malato», dove la parola essere assume una fortissima valenza: quella episodica (essere malato in quel preciso momento della vita) e quella ontologica, dell’essere che attraversa con tutto se stesso, corpo e mente, la malattia. Della persona che “diventa” malattia. Persona che è in primis fisicità, corpo.
«La letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente; perché il corpo rimanga una lastra di vetro liscio attraverso cui l’anima appaia pura e chiara, e, eccetto che per una o due passioni come il desiderio e la cupidigia, sia nullo, trascurabile e inesistente. La verità è tutto il contrario»
scrive Woolf, smentendo secoli di letteratura aulica:
«Alle grandi guerre che il corpo, servito dalla mente, muove, nella solitudine della camera da letto, contro gli assalti della febbre o l’avvicinarsi della malinconia, nessuno bada. Non ci vuole molto a capire perché. Guardare simili cose in faccia richiede il coraggio di un domatore di leoni; una vigorosa filosofia; una ragione radicata nelle viscere della terra».
Perché, oltre che medico, etico, filosofico, la malattia è anche un problema linguistico. Trattare la malattia, viverla, significa innanzitutto «dire la malattia»: trovare le parole, le frasi, un testo che abbia la capacità di definirla. Esiste una lingua della malattia che non sia il linguaggio scientifico dei dottori? Non solo per affrontare la malattia, ma addirittura per parlarne ci vogliono forza e consapevolezza. Mancano molto spesso, però, le parole. Prima ancora che far letteratura sulla malattia, lascia intuire Virginia Woolf, bisogna definirne una grammatica. Stabilirne un lessico. Un (nuovo) vocabolario. «A impedire la descrizione della malattia in letteratura ci si mette anche la povertà del linguaggio. L’inglese, che può esprimere i pensieri di Amleto e la tragedia di re Lear, non ha parole per i brividi e il mal di testa», scrive. «Basta che il malato tenti di spiegare a un medico la sofferenza che ha nella testa, perché il linguaggio si prosciughi di colpo. Non c’è nulla di pronto all’uso» osserva, dando evidenza a un’esperienza che tutti abbiamo provato e proviamo, anche quando la malattia che ci tocca è una banale influenza. E ricorriamo a gesti, a espressioni del viso, a onomatopee per descrivere ai parenti o al medico, la nostra condizione, i sintomi, le conseguenze.
Ma Woolf va oltre. Compiendo quel salto che spinge la riflessione dalla grammatica alla letteratura. Alla combinazione del lessico in significati. «Non abbiamo bisogno semplicemente di una lingua nuova, più primitiva, più sensuale, più oscena», scrive (e in quella parola, «oscena», c’è un rimarcare in maniera decisa l’idea della corporalità, anche quando indicibile), «bensì di una nuova gerarchia delle passioni». Concetto bellissimo e profondo. Perché la malattia non riduce le prospettive dell’essere, le sue passioni, ma le amplia, valorizzando quelle potenzialità dell’umano che vengono mortificate, non sfruttate, accantonate dalla quotidianità delle esistenze in salute. La malattia è il tempo dell’essenziale, della poesia più che della prosa, perché allarga lo spettro della percezione e spinge a individuare i sensi ultimi delle cose, al di là della superficie.
«Quando si è malati le parole sembrano possedere una qualità mistica. Afferriamo ciò che va oltre il loro significato superficiale, comprendiamo istintivamente questo, quello e quell’altro – un suono, un colore, qua un accento, là una pausa – che il poeta, sapendo le parole scarne in confronto alle idee, ha disseminato per la pagina al ne di evocare, quando le riconsidereremo tutte insieme, uno stato mentale che né le parole possono esprimere né la ragione spiegare». La malattia è esclusione non solo del superfluo, ma anche della razionalizzazione estrema cui la vita dei “sani” è soggetta. «Quando si è sani, il significato vìola il territorio del suono. La nostra intelligenza domina i sensi». Nella malattia, invece, la logica lascia spazio alla sensibilità, a canali più sottili di ascolto e di comunicazione, a sottocodici (o sopra-codici) che individuano un linguaggio altro. Che permettono di cogliere nuove sfumature. Bellissima la sottolineatura che, analizzando questo fenomeno, la scrittrice trae da un’osservazione scontata, ma raramente considerata. La condizione del malato è orizzontale. Il malato giace. Guarda in alto. Woolf racconta come il malato non solo guardi il cielo, come fanno distrattamente i “sani”, giusto magari per vedere se volge al bello o alla pioggia, ma lo «veda». Vede il variare dei toni di azzurro, l’inseguirsi e l’accavallarsi delle nuvole, il loro movimento. Vive un’esperienza che i sani non considerano o per la quale «non hanno tempo», inda arati e “verticali” come sono. Una porzione di bellezza e di poesia quasi mistica, che il malato vive in solitudine o meglio in un percorso di comunicazione con se stesso: «Qui procediamo da soli, e ci piace di più così. Essere sempre compatiti, essere sempre accompagnati, essere sempre compresi sarebbe intollerabile».