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La domanda che dobbiamo porci, come Paese, è: che risposta siamo in grado di dare, oggi, a questi bambini e a queste famiglie? Come li sappiamo “accogliere” – per usare il verbo bellissimo che distingue questa sezione del giornale – in un percorso di cure palliative pediatriche adatto ai loro bisogni?». Renato Cutrera, Direttore dell’Unità operativa di Broncopneumologia dell’Ospedale Pediatrico “Bambino Gesù” di Roma, della parola “accoglienza” sottolinea fin dall’inizio della conversazione una caratteristica che sta alla base del suo pensiero: l’equità.
Questo significa da un lato operare affinché i percorsi di cure palliative pediatriche siano accessibili a tutti i bambini e adolescenti che ne hanno necessità e diritto, dall’altro far sì che l’accezione “pediatriche” diventi davvero il modo di essere – e di essere intese – delle cure palliative rivolte ai minori. Non si tratta, insomma, di una declinazione “in piccolo” di uno standard ormai assodato per i pazienti adulti, bensì di un campo della medicina che ha una sua specificità, ed è proprio in base a questa specificità che vanno ragionati i percorsi, i progetti, gli interventi. «Ciò che dico ogni volta, ma è sempre importante premettere, è che il bambino, il paziente pediatrico, non è un “piccolo adulto”», sottolinea Cutrera: «la prima mancata equità è spesso generata proprio da questo
fraintendimento culturale». Ciò vale in particolare quando si parla di cure palliative pediatriche, per due ordini di questioni. «La prima», spiega: «è che il 70% dei pazienti adulti eleggibili alle cure palliative sono pazienti oncologici, mentre un 30%, forse anche meno, è portatore di altre patologie. Per i bambini e gli adolescenti queste percentuali sono diametralmente invertite. Nelle cure palliative pediatriche abbiamo il 75% dei pazienti con altre patologie – neuromuscolari, metaboliche, cardio-patologie congenite, malattie rare genetiche – mentre solo il 25% è rappresentato da pazienti oncologici. Non è solo un fatto statistico: le cure palliative pediatriche si confrontano con una complessità che le rende profondamente diverse, sia dal punto di vista dei bisogni sia in termini di percorsi, rispetto a quelle per adulti». Un secondo aspetto, forse ancora più importante, riguarda il tema della cosiddetta “terminalità”. «Nella medicina dell’adulto, l’aspettativa di vita media dalla presa in carico delle cure palliative al fine vita è molto breve, circa 15 giorni. Nel bambino l’orizzonte temporale è nella maggior parte dei casi molto differente: la terminalità può durare mesi, anni, a volte accompagnare tutta la vita pediatrica del paziente sino a sfociare nell’età adulta», spiega Cutrera.
Nelle cure palliative pediatriche avviene già, di fatto, quella “presa in carico anticipata” che per gli adulti resta ancora un obiettivo da raggiungere. Nel caso di bambini e adolescenti il giusto anticipo c’è e per questo il percorso di cure palliative deve a maggior ragione uscire dall’angolo della terminalità e concentrarsi sull’obiettivo di rendere quel tempo di qualità in tutti gli aspetti della vita del bambino o dell’adolescente. «Le cure palliative pediatriche non sono un mondo a sé, qualcosa cui rivolgersi quando la medicina di branca si arrende, ma devono coesistere e convivere con percorsi di cura specialistici, devono essere intese come un’alleanza tra la famiglia e gli specialisti, con e nel territorio – con le Asl, i Servizi Sociali Territoriali, i Pediatri di Libera Scelta, le scuole – e porsi l’obiettivo di mantenere il bambino il più possibile a casa, nel proprio contesto, all’interno della propria rete di affetti e di socialità. Certo, questo richiede un grande sforzo organizzativo e di risorse, ma bisogna assolutamente evitare che l’hospice pediatrico diventi una struttura per lungo-degenti. Sarebbe un fallimento».
Il sistema sanitario e socio-assistenziale italiano è pronto per attuare questa visione? Il tema dell’equità non rischia di andare in frantumi di fronte a realtà regionali profondamente diverse per disponibilità di risorse e di servizi? La risposta di Cutrera è animata dal realismo. «In Italia abbiamo un elemento fantastico, la Legge 38 del 2010 (che tutela e garantisce il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative, anche pediatriche n.d.r.) approvata con il voto favorevole di tutto il Parlamento. Quando però passiamo all’atto pratico, ci scontriamo con ventuno sistemi sanitari differenti, quelli delle Regioni e delle Province autonome. A livello ospedaliero lo
verifichiamo ogni giorno: quando dimettiamo un bambino troviamo condizioni di inequità più o meno evidenti rispetto all’assistenza che può e deve essere garantita a lui e alla sua famiglia, in funzione del luogo di residenza. Io sono fortemente convinto che non possiamo dare tutto a tutti, perché le risorse sono limitate, ma deve almeno esistere un principio di equità alla base del sistema, in modo da garantire l’assistenza domiciliare e la presenza di centri e unità operative di pediatria o hospice che abbiano le competenze utili a gestire un bambino medicalmente complesso nel miglior modo possibile e sul suo territorio. Finché non avremo, almeno nell’ambito della stessa Regione, professionisti che parlano la stessa lingua dei Centri di riferimento in merito ad attività vitali come la ventilazione, la nutrizione artificiale, l’uso dei presidi medici e naturalmente la terapia del dolore, costringeremo le famiglie a percorrere chilometri e chilometri per ricevere un’assistenza adeguata. E questo non è più accettabile».