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La malattia, la malattia inguaribile, la morte, oltre a essere naturali e connaturati all’esistenza sono fatti eminentemente culturali. Il contesto all’interno del quale ciascuno – singolo, famiglia, comunità – cresce e sviluppa il proprio pensiero, è come
un paio di occhiali attraverso il quale, inevitabilmente e quasi sempre senza accorgersene, viene letto, affrontato, gestito e giudicato qualsiasi evento. Come ha scritto l’antropologo Ralph Linton,
«per l’essere umano, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi epoca, la cultura è come l’acqua in cui il pesce nuota: il pesce vede attraverso l’acqua, ma vede l’acqua».
O, come efficacemente traduce Ana Cristina Vargas, antropologa e psicologa, Direttrice Scientifica della Fondazione Ariodante Fabretti Onlus,
«noi vediamo la cultura negli altri, ma non la vediamo in noi stessi».
Cosa succede dunque, quando con i nostri occhiali incrociamo le storie, i vissuti e i comportamenti di chi è nato e cresciuto in culture diverse, soprattutto se questo incontro avviene in un contesto di cura e in condizioni già di per sé drammatiche come la malattia grave o inguaribile di un bambino? La realtà di una società sempre più multiculturale, frutto di migrazioni recenti e con divari culturali ancora forti, chiama il mondo della cura – in particolare delle cure palliative pediatriche, con lo “scandalo” della malattia grave e della morte di un bambino – a una riflessione profonda. Quanto e come i professionisti sanitari devono maturare la consapevolezza di uno sguardo condizionato, e come far sì che questo “pregiudizio” non comprometta la fondamentale capacità di relazione e comunicazione con pazienti e genitori portatori di altre culture?
«Di fronte a un evento tragico come la malattia grave e inguaribile di un figlio, la cultura di origine è certamente una risorsa, perché costituisce un nucleo profondo di appartenenza e ancoraggio a significati che hanno un elevato valore esistenziale e personale per ciascuno dei membri della famiglia», spiega Vargas. «Talvolta però, di contro, può essere un fattore ostacolante, che rende difficile lo sviluppo di una buona relazione fra il bambino, i genitori e i curanti. Ci sono limiti linguistici che rendono difficoltosa la comunicazione o situazioni di sfiducia e fraintendimento reciproco che, in alcuni casi, possono portare al conflitto quando il modo di intendere e gestire la malattia e la disabilità nel Paese di origine diverge o si contrappone rispetto al modello della realtà ospitante; in questi casi, i genitori possono subire pressioni da parte della famiglia in patria, sperimentare un forte senso di disorientamento, oppure sentirsi arrabbiati, giudicati o semplicemente in difficoltà rispetto alle richieste e alle aspettative dell’équipe curante».
Si tratta di un tema sempre più presente e, in prospettiva, cruciale per l’ambito delle cure palliative pediatriche, che si traduce in due direzioni: da un lato, la necessità di ampliare le competenze dei professionisti a discipline che, nell’ambito delle medical humanities, facciano prendere coscienza dei bias culturali inconsapevolmente applicati nelle relazioni con famiglie straniere (come per esempio l’antropologia medica), dall’altro l’utilità di allargare l’équipe multidisciplinare a nuovi professionisti sempre più specializzati, dal mediatore interculturale all’etnopsicologo, all’etnopsichiatra, figure che non possono più prestare solo un’opera sporadica in situazioni di emergenza ma devono accompagnare in modo armonico tutto il percorso di presa in carico fin dall’inizio, diventando per la famiglia non uno “specialista terzo” bensì parte integrante dell’équipe, che coopera a pieno titolo nell’alleanza di cura.
«Il compito di un mediatore o di una mediatrice interculturale non è solo tradurre, ma soprattutto facilitare una comunicazione bidirezionale, per fare emergere elementi di rilievo dal punto di vista culturale, sociale o religioso. La relazione con gli altri, infatti, implica tanti e diversi ambiti: un approccio diverso ai processi decisionali; un’altra prospettiva nei ruoli di genere, differenze significative nella rappresentazione del corpo, della salute, della malattia o del senso stesso dell’infanzia», spiega Vargas. Aggiungendo una nota, fondamentale: mai commettere l’errore di generalizzare.
«La diversità culturale va esplorata senza perdere di vista l’unicità di ogni storia, di ogni famiglia e di ogni singolo individuo. La cultura non determina la soggettività, è piuttosto una mappa mentale che permette di conferire senso alla realtà e di attingere, in modo dinamico e selettivo, a un patrimonio di saperi e tradizioni condivise».
Non solo: la presenza di esperti, oltre a essere una risorsa nella gestione della relazione con pazienti e famiglie, lo è anche per l’arricchimento professionale di tutti i membri dell’équipe di cure palliative.
«La competenza culturale dell’esperto non riguarda indicazioni su cosa fare o non fare in determinate situazioni», conferma Vargas, «ma apre una prospettiva che consente all’équipe di portare all’attenzione clinica il registro della cultura».
Ci ricorda che indossiamo degli occhiali. «Non significa, certo, avere tutte le risposte, impossibile rispetto alle infinite varianze culturali e al fatto che ogni famiglia è unica e diversa da tutte le altre; significa invece imparare a porre domande che siano pertinenti e consentano di entrare nell’esplorazione della dimensione culturale di chi abbiamo di fronte, affinché questa dimensione non sia un ostacolo, bensì un elemento positivo dell’alleanza terapeutica».