Cura

Noi fisioterapisti diamo un senso nuovo alla parola ri-abilitare

«La riabilitazione di un paziente in terapia palliativa è un paradosso. Che cosa c’è mai da riabilitare in una persona che è in una condizione di inevitabile peggioramento? Perché movimentare, correndo il rischio di peggiorare il quadro clinico complessivo o portare ulteriore affaticamento? Insomma, serve, e a che cosa, un fisioterapista in un’équipe di cure palliative?».

A porsi queste domande («ce le facciamo da anni e continueremo a farcele», dice) è Marco Vacchero, fisioterapista, coordinatore dell’Area fisioterapica della Fondazione FARO di Torino e coordinatore del Gruppo di lavoro dei Fisioterapisti della SICP. Ri-abilitare significa far tornare abile, far funzionare “normalmente” come prima, in una condizione che è ormai però lontana dal normale. Se si rimanesse prigionieri delle parole e del loro etimo, il paradosso sarebbe evidente. Ma lo spazio affascinante all’interno del quale si muove la professione del fisioterapista in un contesto di cure palliative sta tutto nei tanti, diversi e sfidanti significati del potersi “sentire abile” per dare qualità al tempo di vita, obiettivo delle cure palliative.

«Più che su “riabilitare”, meglio concentrarsi sulla parola “individuo”: ogni persona è tale perché è un insieme di elementi non divisibili. Il fisioterapista nelle cure palliative è un freno alla frammentazione dell’individuo, il suo compito è permettere alla persona di adattarsi al cambiamento del proprio corpo, tentando, al contempo, di rallentare il più possibile la perdita delle funzioni dell’organismo e la sua frammentazione», spiega Vacchero.

Per questo, il programma riabilitativo non si limita a identificare una sola finalità rieducativa nel paziente; considerare l’individuo nella sua globalità implica che il trattamento includa necessità diverse, fisiche, psicologiche e relazionali: è fondamentale che il paziente sia protagonista attivo, che ci sia una progettualità condivisa che lo renda soggetto del piano di assistenza.

«Il fisioterapista propone e non impone la terapia, la discute con il paziente, si occupa del suo corpo, del suo vissuto e dei suoi pensieri», aggiunge Vacchero, «vive queste esperienze insieme alla persona, ne valorizza gli eventuali progressi e risponde sempre sinceramente a chi ha di fronte. Non si nasconde mai dietro a una tecnica acquisita ma lascia spazio all’istintività delle emozioni; non possiamo, alla fine della vita, obbligare a una posizione stabilita, un trattamento codificato, dobbiamo permettere al corpo di esprimere ciò che necessita; dobbiamo farlo nell’attimo vissuto, nel “qui e ora”, affrontando insieme al nostro paziente la sua malattia». Anche questo coinvolgimento («che prevede la possibilità che il paziente dica “basta, adesso lasciatemi così”», dice il professionista) fa parte di una dinamica di relazione che passa in primis attraverso quel potentissimo canale non verbale che è il tatto, il con-tatto.

L’approccio al corpo malato avviene attraverso il tocco del fisioterapista che, a sua volta, si lascia toccare dal paziente: questo dare e ricevere presuppone fiducia reciproca e spesso il legame che si instaura tra terapeuta e paziente è forte perché caratterizzato da sguardo, approccio, ascolto, parola, contatto fisico: gli elementi distintivi che determinano la relazione.
Il terapeuta lavora col proprio corpo e con quello del paziente, con l’obiettivo di risolvere le difficoltà attraverso il corpo stesso; in qualsiasi approccio di cura, il corpo è sempre mediatore tra il mondo esterno e quello interno.

«Ogni giorno sperimento quale straordinario mezzo di comunicazione siano le nostre mani. Le mani toccano, avvolgono, carezzano, offrono conforto, accompagnano, stimolano, calmano, sono testimoni della presenza del curante, sono parte della cura. Le mani sono un “orecchio tattile”. I gesti sempre morbidi, rotondi: non ci deve essere forzatura, quanto piuttosto un invito; un continuo mettersi davvero dalla parte del malato, abbandonando gli schemi e le abitudini consolidate del “professionista”», conferma Vacchero.

Statisticamente, i pazienti con bisogni di cure palliative eleggibili a percorsi di fisioterapia sono tra il 15 e il 18%, e stanno crescendo le competenze e gli strumenti scientifici per poterne misurare l’efficacia, la qualità di vita prodotta, oltre all’allungamento dei tempi di prognosi.

«La principale criticità di questi strumenti riabilitativi è non riuscire a conciliare una valutazione funzionale con una verifica dell’impatto dei trattamenti sulla qualità di vita dei pazienti in fase avanzata di malattia, che rappresenta l’obiettivo principale nelle cure palliative». Proprio partendo da queste constatazioni è di recente stato avviato in Italia uno studio multicentrico (5 le realtà di cure palliative coinvolte, 500 i pazienti che si prevede di coinvolgere, tutti oncologici) per arrivare alla validazione italiana dello standard EFAT-2 (Edmonton Functional Assessment Tool-2), oggi considerato lo strumento di riferimento per valutare l’efficacia degli interventi fisioterapici nei setting di cure palliative.

«Se lo standard di misurazione ci consente di avere un riscontro concreto del nostro operare, l’altro elemento fondamentale su cui lavorare è la formazione: i fisioterapisti che scelgono il contesto delle cure palliative devono essere specificamente formati, in modo che abbiano competenze e conoscenze adeguate a comprendere i bisogni specifici di questo tipo di pazienti e delle loro famiglie».

 

IL RUOLO DELL’ÉQUIPE DI CURE PALLIATIVE

Anche rispetto alle indicazioni che arrivano dalla Società Italiana di Cure Palliative (SICP), la direzione è rafforzare lo spazio di azione e le competenze della fisioterapia in cure palliative, «facendo in modo che ci siano sempre più spazi e occasioni di condivisione delle buone pratiche che ciascuno mette in atto. Abbiamo bisogno di contaminarci, di condividere, di far crescere il senso dell’apporto che la nostra professione può dare in questo campo. Ogni giorno la nostra attività esprime in maniera piena il senso del “care”», spiega Silvia Sgargi, fisioterapista della Fondazione Hospice Seràgnoli. «Un senso che mi viene restituito dal modello operativo che adottiamo in Fondazione, basato sul lavoro di équipe. Il progetto riabilitativo è condiviso con gli altri professionisti sanitari, adattiamo insieme le strategie e insieme valutiamo i risultati». Un ruolo, quello del fisioterapista, destinato a crescere «con l’allargamento della presa in carico ai pazienti non oncologici che la Fondazione sta perseguendo e che ci porta a lavorare con persone che hanno un’aspettativa di vita più lunga e con le quali possiamo condividere progetti riabilitativi più ampi».

Intervista a

Marco Vacchero

Fisioterapista, è coordinatore dell’Area fisioterapica della Fondazione FARO di Torino. Insieme alla collega Manuela Inga coordina il Gruppo di lavoro dei Fisioterapisti della SICP, attivo da gennaio 2022.

Intervista a

Silvia Sgargi

Fisioterapista presso la Fondazione Hospice Seràgnoli.

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