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Danijel, per presentare il tuo stile e la tua opera usiamo le parole con cui ti ha “riassunto” un maestro come Federico Fellini: «Di Danijel Žeželj mi affascinano le prospettive, il modo in cui riesce ad esprimere attraverso le sue storie e i suoi personaggi il senso della malinconia, di qualcosa di fatale che incombe». Cos’è e come nasce questo senso di incombenza?
È vero, “qualcosa di incombente” è spesso presente nel mio lavoro: è una sensazione di tensione e dramma mista a malinconia e nostalgia. Ma credo anche fortemente nella resilienza e nella speranza e voglio pensare che il lato oscuro del mio lavoro sia necessario per ispirare il desiderio e il bisogno di creare, la volontà di combattere, di sopravvivere, di lottare per tendere verso la luce e la gioia. Ogni cosa, ogni situazione ha due lati, la luce e il buio, che sono inseparabili: non esiste l’uno senza l’altro. L’unico modo per affrontare l’oscurità, che comunque di fatto esiste, è usarla come motivazione per fare qualcosa di buono.
Di maestro in maestro. Lei ha spiegato più volte che la sua arte guarda agli artisti del Seicento, in particolare a Caravaggio. Che cosa la affascina di quello stile?
Caravaggio ha indagato come nessun altro il dramma della luce e dell’ombra, l’uso del chiaroscuro, e non solo come approccio tecnico all’opera, ma anche nell’interpretazione dei soggetti e dei temi. Caravaggio, oltre a essere un maestro della tecnica barocca e uno dei più grandi pittori della storia, era anche un narratore straordinario. Ogni suo dipinto contiene molteplici livelli di narrazione e, man mano che il suo stile evolveva, queste storie e questi strati diventavano sempre più complessi e ricchi di sfumature, fino a culminare in dipinti come il Martirio di San Matteo o le Sette opere di misericordia. Ciascuna di queste opere ha molteplici chiavi di lettura, è un insieme di simboli e di frammenti di tante storie, tutte fuse in un’unica immagine coesa e potente.
Lei ha partecipato al progetto benefico do ut do, donando le sue opere a sostegno della Fondazione Hospice Seràgnoli che assiste pazienti con malattie inguaribili attraverso le cure palliative: che cosa l’ha colpita di questa collaborazione e dell’opera quotidiana della Fondazione?
Prima o poi capita a tutti di avere familiari e amici con una malattia terminale, che affrontano l’ultimo tratto del proprio percorso. La presenza ravvicinata dell’inevitabile porta a leggere la vita da una prospettiva diversa. Il trascorrere del tempo ci cambia, alcune cose sono impossibili da capire fino a una certa età. Poi, a un certo punto del nostro percorso ci rendiamo conto, in modo profondo, quasi viscerale, che il nostro tempo, qui, in questa vita e in questo spazio, è limitato. Penso che questo dovrebbe essere accettato come un dono da celebrare e da custodire. Per quanto ci possiamo sforzare, non siamo per nulla padroni del nostro destino, nessuno sa cosa porterà il domani, nessuno è preparato all’imprevedibile. Ma avere la possibilità di attraversare l’ultima tappa del nostro viaggio con grazia e dignità è il dono più grande che si possa ricevere. Chi mette in atto questo tipo di assistenza e aiuto offre la più nobile e alta conferma di civiltà e di umanità.
L’uso del bianco e del nero è il suo marchio di fabbrica. Facendo un parallelo, le cure palliative operano sul confine tra il bianco e il nero, tra la vita e la morte. Ed è proprio quando si arriva a questo confine che si scopre che non è tutto solo bianco o solo nero… Restando nella metafora: quanti colori contiene questo apparente schema bicolore?
Spero ne contenga molti! Perché ciò che non è visibile e ovvio, diventa infinito nelle sue possibilità e variazioni. Spero che chiunque guardi i miei disegni e legga le mie storie possa sa trovarci dentro la propria storia, le proprie sfumature e i propri colori. Una buona storia non è una scatola chiusa, è un invito aperto, la creatività e l’immaginazione del lettore sono importanti quanto la creatività dello scrittore o del pittore. Anche la vita è così: non è uno schema predeterminato, nemmeno quando arriva in prossimità della fine.
Negli ultimi anni c’è stata una forte ripresa della popolarità dei supereroi dei fumetti, con un nuovo pubblico di giovani e giovanissimi. È solo intrattenimento oppure abbiamo in qualche modo sempre bisogno di coltivare il mito dell’eroe sovrumano?
L’idea del “supereroe” è antica quanto la nostra civiltà. Non c’è nulla di sbagliato in questa idea, abbiamo bisogno di credere in qualcosa al di sopra e al di fuori di noi, che opera in un mondo ideale dove il bene vince sempre sul male. Ma oggi siamo forse all’eccesso e un concetto che appartiene al regno della fantasia infantile è diventato un’interpretazione diffusa del mondo reale. Dovremmo dare alla realtà più attenzione e rispetto: la realtà è ricca e complessa, non può essere semplificata con due categorie; non neghiamole la dignità che merita.
Per un artista è più interessante e stimolante raccontare il bene o addentrarsi nei misteri del male?
A meno che non si tratti di metafore, è difficile per me credere nel male assoluto o nel bene assoluto. È come per il bianco e il nero: non sono assoluti, ci sono molte sfumature di grigio nel mezzo. Non credo che il male meriti di essere mistificato: la sua banalità è una vera forza con cui fare i conti e il potere della banalità non dovrebbe essere sottovalutato. Una risposta valida al “male” sono la creatività e il pensiero positivo.
Crede che l’arte sia una forma di cura per i mali – psicologici, sociali, culturali… – che affliggono l’umanità?
Assolutamente sì. L’umanità finirà nel momento in cui perderemo l’arte e la capacità creativa. Il problema è che oggi l’arte diventa spesso un bene esclusivo, viene isolata all’interno di una bolla gonfiata di “arte alta”. L’arte deve mantenere le proprie radici nel tessuto grezzo della vita quotidiana di tutti.