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La definizione più semplice ed efficace la propone Pierangelo Lora Aprile, medico, Segretario Scientifico della Simg-Società Italiana di Medicina Generale e Presidente della Commissione Ministeriale Medicina Palliativa, usando una metafora che richiama un gesto tanto naturale quanto utile a rendere esplicito il cambio di prospettiva in atto. «Noi Medici di Medicina Generale dobbiamo “cambiare gli occhiali” con i quali guardiamo il paziente». Cambiare gli occhiali significa «iniziare a vedere il paziente attraverso la lente del suo bisogno complessivo, attraverso percorsi di valutazione multidimensionali. È una prospettiva rispetto alla quale probabilmente non siamo ancora abituati a ragionare, ma che rappresenta il futuro della nostra professione».
La metafora funziona perché rende bene l’idea della doppia prospettiva, quotidiana e universale, che deve
caratterizzare oggi la missione del medico di famiglia in un contesto in profondo cambiamento. La crescita progressiva dell’aspettativa di vita da un lato e l’aumento delle patologie cronico-degenerative dall’altro portano a un incremento dei bisogni di assistenza per periodi di tempo sempre più lunghi.
Tradotto in altri termini, la scienza medica consente di allungare il tempo di vita anche per chi è portatore di una malattia cronico-degenerativa, ma chi fa in modo che questo tempo guadagnato sia davvero un tempo di qualità? E – aspetto non secondario – come fare in modo che tutto ciò sia sostenibile rispetto alle forze (di budget, di professionisti, di strutture) su cui il sistema sanitario può contare?
È nello spazio lasciato aperto da queste domande che si giocano sia le nuove sfide delle cure palliative, sia i nuovi orizzonti d’azione della professione del medico di medicina generale. Un orizzonte decisamente ampio, se si considera che in Italia i pazienti in questa condizione sono almeno l’1,5% della popolazione totale, «ai quali si aggiunge un ulteriore 3,5% di cosiddetti “fragili”, che si appresta a uscire dalle modalità di cura previsti dai Percorsi Diagnostico Terapeutico-Assistenziali (PDTA) e necessita di una valutazione multidimensionale e di un piano di assistenza individuale», sottolinea Lora Aprile. A grandi linee, un 5% della popolazione-pazienti che si trova in una situazione di malattia complessa, per mantenere una sufficiente qualità di vita non può avere come unica strada la medicina specialistica. «Se all’interno della lista dei propri assistiti ciascun medico di famiglia identificasse precocemente i pazienti con limitata aspettativa di vita, sarebbe possibile adottare con anticipo un “approccio palliativo”, spostando il
focus d’attenzione dalla sola cartella clinica ad aspetti come la qualità della vita, il controllo dei sintomi, una diversa modalità di comunicazione più attenta, per esempio, ai desideri del paziente e della sua cerchia di affetti», spiega Lora Aprile. Ecco che il ruolo del medico di medicina generale assume un valore profondamente nuovo. L’assunzione di competenze relative alle cure palliative diventa uno strumento utile e necessario sotto diversi aspetti: risponde in maniera più efficace (e umana) ai bisogni dei propri assistiti fornendo cure palliative primarie, ma si pone anche come snodo chiave all’interno del network di competenze e servizi che ruotano intorno alla presa in carico di pazienti con cronicità degenerative. Il medico così diventa punto di riferimento per le reti territoriali, per i referenti dei diversi setting di cura (dalle cure domiciliari agli hospice) e per gli specialisti che entrano in campo nel corso della progressiva complicazione della malattia.
Il medico di medicina generale è chiamato, insomma, non a essere un «piccolo palliativista», ma ad avere una consapevolezza al contempo culturale e professionale delle cure palliative. «Sebbene le cure palliative si occupino di una fase particolare della vita delle persone, condividono con la medicina generale la caratteristica di avere come oggetto di cura la persona e non singoli organi o apparati», testimonia Agostino Panaija, giovane medico di
medicina generale a Ferrara che ha scelto di frequentare il Master Universitario in Alta Formazione e Qualificazione in Cure Palliative di Secondo Livello attivato dall’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa (ASMEPA). «Quando si guarda alla persona, alla sua rete di relazioni, andando oltre la sola dimensione biologica, le variabili e i determinanti di salute in gioco aumentano esponenzialmente. Nelle cure palliative questo aspetto è molto
valorizzato, così come la necessità di non essere lasciati soli, di lavorare in team integrando le competenze di tutti i professionisti coinvolti nell’idea che tanto la rilevazione dei bisogni quanto le risposte emergano dall’interazione come sintesi di diversi punti di vista». Caratteristica peculiare del medico di medicina generale è infatti da sempre la sua capacità di essere attento alla persona, al “suo” paziente, attraverso una relazione costruita nel tempo e
nella quotidianità. Ma esiste ancora questo rapporto forte e privilegiato con il paziente-persona a tutto tondo?
«Considerando l’attenzione maggiore verso la psicologia medica, ci si trova spesso a dover affrontare problematiche
che si discostano dalla medicina pura per sconfinare nel sociale o nel familiare, con l’obiettivo di arrivare a scelte
condivise con gli assistiti», osserva Lorenzo Stancari, medico di medicina generale a Zevio, nel Veronese, anche lui reduce da un’esperienza di Master in Asmepa: «Credo che questa tendenza della medicina generale sia anzi cresciuta con le nuove generazioni di medici, meno condizionate rispetto alla precedente dall’atteggiamento paternalistico del medico». «L’approccio centrato sulla persona è una delle caratteristiche più importanti della medicina generale; genera una relazione forte tra medico e paziente perché non deriva da una fase contingente della vita di una persona, ma da una conoscenza frutto di incontri successivi in momenti diversi tra loro.
Questo è molto importante perché permette di rilevare elementi e sfumature che sarebbe difficile cogliere altrimenti e crea un legame forte, umano, con la persona assistita e la sua famiglia», dice sicuro Agostino Panaija, il quale introduce un ulteriore concetto. «Un altro elemento è rappresentato dalla conoscenza del tessuto locale di vita delle persone, che supera la dimensione familiare per estendersi alla comunità. Nella medicina del territorio la conoscenza del contesto è fondamentale per una piena e più completa comprensione dei bisogni in salute presenti nel contesto di cura e per una valorizzazione delle risorse presenti». Questa crescita quasi parallela tra cure palliative e medicina generale è un percorso in atto, che richiede un grande
sforzo e impegno sul fronte della formazione, ma anche una coraggiosa e non scontata riorganizzazione delle strutture e dei processi che oggi regolano il contesto sanitario. «Sarebbe importante creare un collegamento diretto tra il livello delle cure palliative primarie e il livello specialistico, una sorta di compenetrazione dei nodi della rete», suggerisce per esempio Agostino Panaija. «Perché la presa in carico del paziente con bisogni di cure palliative funzioni è necessario che si integrino le competenze di base in cure palliative, proprie dei Medici di Medicina Generale, con quelle specialistiche dei palliativisti che subentrano in una fase successiva».