Cura

La terapia della bellezza

I capolavori dell’arte come strumento per un nuovo e diverso approccio alla cura.

Secondo Pablo Picasso «l’arte scuote dall’anima la polvere accumulata dalla vita di tutti i giorni». Per lo scultore romeno Constantin Brâncusi, addirittura, «il fine dell’arte è creare la gioia». Parole da artisti, dirà qualcuno, e quindi – va da sé – dettate da un impeto emozionale staccato dalla realtà. Invece in queste due dichiarazioni che vanno al cuore del senso più profondo dell’essere artista e del fare arte (ovvero «creare» non solo un manufatto di valore estetico, ma anche trasmettere un valore alto e altro all’umanità intera) c’è una verità che con metodo scientifico è stata più volte dimostrata: l’arte fa bene. Uno studio internazionale, condotto dal neuroscienziato statunitense Harold J. Dupuy, e ripreso dalla dottoressa Daniela Lucini, responsabile della sezione di Medicina dell’Esercizio e Patologie funzionali della clinica Humanitas di Milano, ha evidenziato la correlazione tra il processo di formazione del benessere psico-fisico e la fruizione della cultura, l’arte in particolare.

Contemplare un capolavoro «ci fa sentire bene» perché lo stimolo del bello attiva il rilascio di dopamina, neurotrasmettitore che regola l’umore: è la stessa scossa di piacere – banalizzando – che si prova quando si mangia una tavoletta di cioccolata. Il tema è affascinante oltre che importante quando si ragiona di frontiere della medicina e di un approccio alla patologia come presa in carico complessiva della persona, di attenzione e apertura alle sue emozioni, alle sue sensazioni come parte della cura e del rapporto tra paziente e staff medico-assistenziale. Dunque per gli artisti creare un’opera è manifestare il senso più profondo della loro umanità: un senso del «fare arte per esprimere la vita» che trasmette allo spettatore un messaggio prepotentemente umano.

Ma la contemplazione della bellezza artistica sta diventando anche metodo formativo per i futuri medici. Da oltre un decennio, i laureandi della facoltà di Medicina di Harvard sono chiamati a seguire un corso di nove settimane di «Training the eye», svolto in collaborazione con il Museo delle Belle Arti di Boston. Una modalità attivata dallo scorso anno anche dall’Università La Sapienza di Roma, che ha avviato il

primo corso sperimentale in «Visual Thinking Strategy» per gli studenti del terzo anno di Medicina e Chirurgia, in collaborazione con il Museo Galleria Borghese di Roma. «La metodica dell’arte visiva», ha spiegato Vincenza Ferrara, coordinatrice del corso, «si basa sulla pratica dell’osservazione, che dovrebbe essere uno dei cardini della formazione medica.

Analizzando e descrivendo le opere d’arte, si incrementano le proprie capacità di analisi e confrontandosi con gli altri si sviluppa il pensiero critico.

L’opera d’arte diventa veicolo di apprendimento per gli studenti che sono stimolati a esporre e spiegare le loro valutazioni di ciò che hanno osservato al museo e a discuterne fra loro; il metodo li incoraggia ad affidarsi alle proprie capacità e conoscenze, aumentando la fiducia in se stessi e la voglia di esporre le proprie convinzioni e conclusioni».

«L’arte ci testimonia la normalità del dolore. O, meglio, la poesia che nasce dal dolore. E trasmette quella tenerezza che spesso non si riesce a incontrare o realizzare nella quotidianità dei rapporti». Così scrive Alain de Botton, con John Armstrong autore di L’arte come terapia.  The school of life (Guanda), approfondimento sul valore dell’arte come «elemento che contribuisce alla comprensione di sé e un ottimo modo per comunicare agli altri i frutti di questo processo».

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