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Fino a quando a dirlo erano i filosofi, passi. Ma quando a darne evidenza scientifica e riscontro strumentale sono state le neuroscienze – attraverso esperimenti di tracciamento dell’attività neuronale – si è finalmente avuta una conferma oggettiva a quel che ogni persona nel suo intimo sente e comprende fin dalle origini del mondo: la compassione è uno degli elementi fondanti della persona e della personalità, è il punto di contatto più profondo tra due soggetti. È – per dirla con Dostoevskij – «la più importante e forse l’unica legge di vita dell’umanità intera». Una percezione emozionale che dipende dal “sentire” il dolore altrui come se fosse il nostro, secondo la teoria scientifica dei neuroni specchio, cellule nervose motorie che risuonano nel nostro cervello proprio come se a compiere quei gesti fossimo noi. Non è sentimentalismo, non è empatia, non è commiserazione, non è neppure pietà: la compassione è quella percezione emozionale della sofferenza altrui che muove il desiderio di alleviarla.
O, come con nettissima sintesi scrive Philip J. Larkin, presidente dell’European Association of Palliative Care nel suo Compassion: The Essence of Palliative and End of Life Care, la compassione «fornisce quel linguaggio silenzioso che serve per affrontare una sofferenza che non può essere detta». Non è mai dunque un elemento statico, non è un asettico prendere atto della sofferenza altrui, un «dispiacersi» rimanendo fermi nei propri confini, ma è qualcosa che chiama fortemente in causa il singolo, che muove all’azione, che richiede non lacrime, ma tenacia, determinazione, a volte anche la capacità di assumersi dei rischi. Ecco la sua forza, e la sua specificità: la compassione «chiama verso» l’altro, spinge a mettersi in gioco, attiva e sostanzia una relazione profonda improntata al miglioramento («Dobbiamo imparare a considerare le persone meno alla luce di ciò che fanno o dimenticano di fare e più alla luce di ciò che soffrono», scrive il teologo Dietrich Bonhoeffer). Se guardiamo alla radice etimologica di quei due lemmi latini da cui la parola è composta, “cum” (con) e “patior” (soffro), l’accento, la forza e l’attenzione cadono soprattutto su quel “con” che rende il soggetto protagonista dell’azione e spinge inesorabilmente all’altro.
È un’apertura senza mezzi termini a chi ci sta di fronte (non per niente, nella Grecia classica la parola che sostanzia tutto questo è “sympatheia”, da cui il nostro “simpatia”). Di conseguenza, l’espressione naturale della compassione è il prendersi cura ed è attraverso la cura che essa diventa esperienza fisica. Anzi, di più, esperienza sociale, la condizione per costruire un diverso tipo di approccio alle relazioni interpersonali, a partire da quell’ambito in cui si sperimentano il dolore e la sofferenza e, quindi, è fortemente necessaria questa propensione al “soffrire con”: l’ambito sanitario e della cura. In questa prospettiva, con questa ricomprensione del termine, ecco che la compassione da elemento specifico delle cure palliative può e deve ampliarsi fino a diventare una vera e propria “filosofi a della cura”, un modello su cui rifondare l’approccio al paziente come persona, non come insieme di sintomi. È questa la grande sfida che abbiamo di fronte.
Un libro e un film per comprendere la forza che può scaturire dalla compassione. Il volume Compassion: e Essence of Palliative and End of Life Care, di Philip J. Larkin (Oxford University Press). E il film Quasi amici, un grande successo francese del 2011 diretto da Oliver Nakache e Eric Toledano. La compassione secondo una visuale non scontata.