Scarica il numero
Alessandro Bergonzoni scava nella dimensione nascosta della parola, nell’illuminazione dei suoi significati altri, per andare all’essenza delle cose. Tanto che dopo un attimo è difficile comprendere se è lui a essere stato accolto dalla realtà dell’Hospice o è l’Hospice stesso – gli operatori, i docenti dell’Accademia, gli studenti, ma anche i pazienti e le loro famiglie – ad essere accolto da lui, compreso, ricompreso, restituito al mondo illuminato da una luce diversa. Anzi da un caleidoscopio di illuminazioni, ciascuna delle quali fa risaltare e regala un senso nuovo a un aspetto inedito. E questo accade ogni volta, nonostante quello con l’artista non sia più una prima volta, ma sia un percorso di reciproco accoglimento, una vicendevole spinta a riscoprirsi sempre capaci di qualcosa
di nuovo. La sua capacità di sostanziare un discorso logico partendo dalla composizione di termini che fanno parte della quotidianità della malattia, ma che esulano dal loro stretto significato, è la grande risorsa che Bergonzoni porta ogni volta che tiene una lezione in Accademia o firma un suo contributo come nel caso del volume “L’arte come cura”, edito da Asmepa Edizioni e del suo racconto pubblicato nell’antologia “Il Tempo”. Nello stesso modo ha inventato il nome di quello che è divenuto il progetto più importante di sostegno alle attività della Fondazione Hospice, “do ut do”. Le sue parole, la sua ricerca, non perdono quella capacità di combinare in un unico pensiero i ritmi del fantasioso e del drammatico anche quando affronta in maniera diretta la sua relazione con l’Hospice, quell’accogliere che diventa subito un cogliere, cogliere l’essenza, l’immanenza della relazione. «Siamo
tutti addetti ai lavori, non c’è nessuno che non c’entri con la cura degli altri», dice, annullando da subito la distanza, facendo cadere lo steccato tra chi è dentro, perché curante o curato, e chi è fuori, dando il senso compiuto di quel che è l’ospite, termine che indica tanto colui che accoglie, quanto colui che è accolto. Niente barriere, accoglienza che deve essere la base del vivere, indirizzata a un’apertura di orizzonti «urgente», per usare un altro concetto che gli piace, senza chiudersi nel proprio io («Il lavoro dell’artista è un “mestiere” cosmico, altrimenti siamo solo venditori di quadri o di libri», aerma). La presenza di Bergonzoni per la Fondazione Hospice spinge a uscire dai propri circoli viziosi, tornando alla radice delle cure palliative e del “fare hospice”, se è vero che «ognuno di noi lavora sul dolore, che diventa il proprio». Con una continua tensione al rapporto, alla visione dell’altro: «C’è ancora differenza tra il lavoro di chi cura e il lavoro che deve fare anche chi riceve queste cure. C’è ancora una terra non arata che dobbiamo impegnarci a dissodare. Quella prevenzione della malattia legata ancora troppo al pregiudizio che abbiamo nei confronti della malattia (differenza tra essere prevenuti e prevenzione), del malato, delle cure, dei cambiamenti che la malattia comporta».
Per Bergonzoni l’accogliere, e a maggior ragione l’accogliere in un luogo come l’Hospice, deve essere sinonimo di “passaggio”. «Il mio desiderio è pensare a un luogo dove non si entra, ma si passa; il medico non è il suo ambulatorio, ma deve essere un corridoio, io vedo il medico come “ponte-varco”, che va attraversato. Questo essere “bucati-aperti”, per chi fa il mestiere della cura, non comporta assolutamente una perdita di forza; chi si occupa di cura non deve preoccuparsi di lasciare quell’apertura da cui entrano ed escono persone, dubbi, anche debolezze, deve anzi allargarlo il più possibile, farlo diventare una piazza». È una sda quella che pone: «Il cambiamento richiesto in questo momento è antropologico; non ci si può limitare, essere specialisti, ma ci si deve allargare, bisogna espandersi. A maggior ragione se lavori qui, se vivi questa responsabilità, non puoi più rimanere quello che sei, restare a quello che ti compete. La competenza non deve diventare competizione, ma formare una nuova dimensione, molto più potente, che produca energia».
Voglio fondare un Centro dove va chi non ha alcuna patologia e chiamarlo Centro Grandi Illesi. Ma subito vicino, confinante, ne voglio costruire un altro dove va chi crede di essere il migliore e non lo è, chi crede di essere sano e salvo e non lo sarà sempre, chi crede di essere grande ma non riesce: lo voglio chiamare Centro Grandi Illusi. E voglio compiere un gesto, un atto: scrivere su quei muri che i miracoli non si aspettano, ma si fanno; che per il principio dei “visi comunicanti” ogni volto deve essere familiare e i familiari non devono essere solo volti; che completamente curato ha lo stesso valore di completamente guarito, che l’atto di nascita ha la stessa meraviglia dell’atto di morte, che dare spazio per far “passare” non significa “lasciar andare”, ma essere lì accanto, affiancando per accompagnare non solo accogliendo (chi è migrante, da uno stato d’animo all’altro); che ci si può sempre iscrivere al corso della vita altrui, perché esistere, prima ancora che generosità, solidarietà o condivisione, è anche pura immedesimazione: mors tua mors mea, vita tua vita mea. Voglio disegnare su quelle pareti il sovrumano, oltre l’umano, e ancor prima delle scienze ci sono le coscienze con le loro infinità, che l’anima ha mani e braccia che sanno carezzare e stringere, perché sono arti. Infatti l’arte non sta solo nei musei (mouseion: luogo sacro), ma in tutte le esposizioni del mistero, del flusso delle vite, che accoglie conserva difende valorizza e tutela i beni, le creazioni, e quindi l’opera più splendida: l’essere, con le sue energie eterne ed immani.