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È un legame ormai consolidato quello che lega Massimo Iosa Ghini e il suo studio di architettura all’Associazione Amici della Fondazione Hospice Seràgnoli. Che prende spunto e occasione – così è stato nel 2014 e così è anche per l’edizione 2016 – dal progetto do ut do per trasformarsi in un’attenzione dove professionalità e disponibilità umana vanno oltre le semplici linee della «partecipazione all’iniziativa». Inevitabile, quindi, che la chiacchierata con l’architetto Iosa Ghini prenda l’abbrivio dall’occasione più immediata (la partecipazione a do ut do 2016), per allargarsi al valore più alto e intangibile di una «filantropia della pratica».
Architetto, lei è un sostenitore seriale. Perché ha scelto di impegnarsi anche quest’anno?
Più che un impegno, definirei questa avventura uno stimolo. Perché ti porta a essere parte di una rete di relazioni vasta, ma soprattutto valida, si ha la possibilità di entrare in contatto e dialogo con persone e soggetti di qualità. Colleghi che svolgono il nostro stesso lavoro, ma anche altri profili, altre voci, altri mondi, il che costituisce un incalcolabile arricchimento da un punto di vista delle sollecitazioni intellettuali. Poi è anche un impegno, certo, perché ci si mette in gioco e quando lo si fa lo si vuole fare bene, anzi benissimo. La cosa che ho scoperto e che ha costituito una bella sorpresa, è che progettare per do ut do toglie peso, toglie responsabilità al progetto. Intendo quella responsabilità “faticosa” del progetto lavorativo consueto, incardinato nelle sue logiche e nelle sue regole. Qui ci muoviamo nel campo dell’evocativo, si esce dall’architettura strettamente codificata e si sconfina nell’arte.
Qual è il principale stimolo, dal punto di vista professionale?
Si viene sollecitati nella progettazione di situazioni che non sono immediatamente necessarie, ma vivono nello spazio del simbolico, sono portatrici di visioni a lungo termine. Questo per chi fa il mio mestiere rappresenta un’ occasione, perché consente di tornare a pensare ad ampio spettro, ti sgancia da quella logica stringente della necessità, delle tempistiche, del ritorno immediato. È un ritorno all’idea.
Cos’ha imparato dall’incontro con la Fondazione Hospice Seràgnoli?
Confrontarsi con una realtà come la Fondazione Hospice Seràgnoli ti porta a un reset che aiuta, anche a livello personale, a fare considerazioni nuove e diverse. È un ritorno all’aspetto umano che deve far parte anche della nostra professione, esserne alla base.