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Una predisposizione innata, che si affina e raffina con la pratica, lo studio, il confronto costante con la realtà e con l’altro. Sono numerose le assonanze che legano il mestiere d’artista a quello di chi si prende cura della salute, due professioni in relazione con il mistero ineffabile della vita e dei suoi significati. E proprio da assonanze metaforiche che prende avvio la nostra conversazione con Karole P. B. Vail, dal 2017 direttrice della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e direttrice per l’Italia della Solomon R. Guggenheim Foundation. Un incarico, quello presso la collezione conservata nell’iconico Palazzo Venier dei Leoni sul Canal Grande, che rappresenta quasi un “ritorno a casa”: prima di diventare sede espositiva, queste stanze e questi giardini nel cuore di Venezia sono state l’abitazione di sua nonna, la leggendaria Peggy Guggenheim, e qui la piccola Karole trascorreva le vacanze estive giocando a nascondino tra le statue in giardino, studiando al cospetto dei capolavori di Kandinski, Magritte, Calder, Ernst.
Partiamo dalla parola che definisce la sua professione,“curatrice”. Quanto incide la consapevolezza del “prendersi cura” delle opere d’arte e dei loro significati?
Una curatrice, un curatore sono mossi dal desiderio di trasmettere la bellezza e i significati di un artista o di un movimento artistico, alle persone che visitano una mostra. Non “cura” le opere d’arte nel senso di proteggerle escludendole dagli altri, ma al contrario si assicura che tutti i contenuti, i valori, il senso di quelle opere arrivino a tutti, siano comprensibili. Cerchiamo di fare in modo che la bellezza, sempre contenuta nell’arte, diventi motivo di meraviglia, ispirazione, dialogo. Scaviamo nelle opere, negli artisti, nei movimenti, per portare in superficie gli elementi di bellezza che possono curare i pensieri, le paure, le inquietudini delle persone. L’arte può far stare bene. Ne abbiamo avuto prova durante il periodo del Covid: anche se il nostro museo era chiuso, abbiamo organizzato tante attività online per continuare a raccontare la bellezza, a trasmettere speranza.
Nel mestiere di curatrice, quanto contano la tecnica, la competenza, e quale ruolo ha invece la sensibilità umana, personale?
La sensibilità può fare la differenza. Lo studio, la preparazione, la tecnica sono fondamentali, perché è necessario conoscere l’artista, il suo mondo e il contesto in cui lavorava. Come curatrice, ho però il dovere di riservare la medesima attenzione al mondo e alla sensibilità delle persone che vengono a visitare la mostra, un pubblico composto da persone diversissime, giovani e meno giovani, provenienti da diversi luoghi e culture. È difficile riuscire a rendere l’opera fruibile a una moltitudine così diversa, ma è importante affinché la visita al museo diventi per ciascun visitatore un’opportunità di crescita.
Il parallelo tra mondo dell’arte e mondo della cura sanitaria chiama in causa un altro termine: fragilità. Le opere, e il messaggio che portano, sono elementi delicati. Come affermare la forza di questa fragilità?
La dote principale è rappresentata dall’equilibrio. È necessario saper rispettare il senso dell’opera, perché le opere più potenti sono spesso anche le più difficili da capire, da decifrare, quelle che trasmettono i significati appunto più “fragili”, e quindi più complessi da cogliere.
Ragionando di bellezza e fragilità, impossibile non portare il pensiero a Venezia, la città che vi ospita, una delle realtà urbanistiche più fragili del mondo…
Una città fragilissima, ma che continua a vivere ed essere un simbolo da secoli e secoli. È un bell’esempio di come essere fragili non significhi arrendersi o sottrarsi allo sguardo, al contatto con gli altri.
Un’altra parola che emerge dalla sua storia, personale e poi professionale, è “memoria”. La Fondazione e la Collezione sono due strumenti che portano con sé una memoria e un lascito – visionario – di una persona e di un’intera famiglia. Qual è il segreto per continuare a conservare una memoria, che si mantenga viva, che continui a generare idee e bellezza, che guardi avanti, e che non diventi “museo” fuori dal tempo?
La forza di un museo non sta solo nella collezione che ospita, ma nella capacità continua di rinnovarsi, di essere luogo vivo nel quale le opere si rinnovano ogni giorno, nel loro essere contemporanee o antiche. Bisogna saper innescare un continuo dialogo tra le opere, tra queste e i curatori e, infine, anche con il pubblico. Non significa “forzarle” nella smania di essere avanguardia o provocazione ad ogni costo. Compito del team e dei curatori è continuare a scavare dentro alle opere per scoprirne nuovi significati, mettendole in relazione con la vita di tutti i giorni, che è per definizione mutevole.
La memoria è lo strumento fondamentale per guardare al futuro con chiavi interpretative solide. Anche per questo, nella storia della Guggenheim Foundation abbiamo sempre posto molta attenzione alla componente educativa, ai laboratori per bambini e adulti, così come ci impegniamo per essere accessibili in modo da favorire la fruizione anche nei confronti di chi è portatore di disabilità. I musei devono essere luoghi di vita per tutti, altrimenti qual è il loro senso?
Lei ha collaborato all’edizione 2024 di do ut do, l’iniziativa di arte solidale promossa dagli Amici della Fondazione Hospice Seragnoli che quest’anno ha come tema “In-Coscienza”. L’arte ha ancora oggi il ruolo di essere coscienza di una comunità? Quanto deve essere “incosciente” nella sua esplorazione di significati nuovi?
L’arte è sempre stata provocatoria, ovvero in qualche modo in-cosciente, perché tendere al cambiamento significa provocare, andare oltre, non fermarsi a ciò che è acquisito, provocare, non utilizzando giochi creativi fini a sé stessi. Questo è un momento storico in cui l’arte ha una forte connotazione politica e sociale e il mercato – che è un attore molto potente – spinge in questa direzione. Se posso fare anche io una provocazione, dico che al fondo dell’arte deve sempre esserci il senso di bellezza.
È solo seguendo la bellezza – e non parlo di sola estetica, ci sono tante forme di bellezza – che l’artista riesce a stimolare riflessioni, aprire domande, accompagnarci a guardare oltre.
Karole P. B. Vail è nipote di Peggy Guggenheim (1898-1979) che fu nella prima metà del Novecento una delle più importanti sostenitrici e promotrice
dell’avanguardia europea e nord americana. Peggy era a sua volta nipote del magnate statunitense Solomon R. Guggenheim, creatore della fondazione che porta il suo nome alla quale fanno capo i musei Guggeheim di New York, Bilbao, Venezia e il futuro Guggenheim Abu Dhabi. Peggy Guggenheim raccolse una nota collezione d’arte moderna in Europa e in America: trasferitasi a Venezia nel 1949, acquistò lo storico Palazzo Venier dei Leoni, sul Canale Grande, una particolarissima architettura (progettato nel 1749 per la famiglia Venier, rimase incompiuto, con solo un piano edificato sui cinque previsti) all’interno della quale stabilì la sua residenza e raccolse le opere aprendone la fruizione al pubblico. Oggi la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia è una delle attrazioni più visitate della città.