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Ci si immagina che i giuristi, cresciuti a codici e raccolte di leggi, abbiano ormai interiorizzato nella propria natura un linguaggio tecnico, nel rispetto di una deontologia costruita in millenni. Per questo si resta quasi sorpresi nell’ascoltare da Stefano Canestrari espressioni che vanno al fondo di quel rapporto eminentemente umano che si sviluppa tra medico e paziente. Un rapporto che si basa su “scienza e coscienza” e su un solido impianto di leggi e norme etiche e giuridiche, ma che in origine e in sintesi torna sempre all’incontro tra due persone. Tra colui che ha gli strumenti della cura e chi vive un bisogno di cura. Un incontro che Canestrari definisce come «relazione terapeutica umana»: tre termini che contengono tanto, tutto. Soprattutto un incontro che prevede una continua messa in discussione di entrambi i soggetti e un investimento di tempo che non sempre si può strutturare in tabelle e burocrazia. Un «tempo della relazione», lo definisce Canestrari, che costituisce – in particolare per alcune tipologie di pazienti più fragili – un valore aggiunto insostituibile. Un diritto. Parte infatti da un comma di legge (comma 8, art. 1 della legge n.219 del 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), alla cui stesura Canestrari ha contribuito in maniera determinante e che è stata oggetto di un corso presso ASMEPA, questo dialogo con il giurista bolognese. «Una legge», spiega, «all’interno della quale le parole “ fiducia”, “relazione”, “tempo” ricorrono moltissimo, perché nell’ambito della cura il dialogo è e resta il baricentro della relazione medico-paziente, il punto di equilibrio sul quale si gioca tutto».
Dialogo che richiede, da parte del medico, una «competenza umana», oltre che professionale e necessita appunto di tempo: proprio quell’elemento che nei contesti lavorativi sanitario-assistenziali sembra non bastare mai. Per questo, spiega Canestrari, «al comma 8 dell’art. 1 abbiamo voluto specificare che “il tempo di comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”. Al di là della mera dichiarazione di principio, l’obiettivo da perseguire con ostinazione nell’ambito organizzativo in cui si svolge la relazione di cura, è quello di attribuire al tempo di
comunicazione tra professionisti sanitari e pazienti lo stesso valore che si assegna al percorso terapeutico e assistenziale in senso tecnico. È necessario dunque acquisire piena consapevolezza della rilevanza di una “consensualità relazionale” che si deve sviluppare tra i due soggetti e che per svolgersi in maniera corretta, serena, umana, richiede tempo. Non può essere qualcosa da “aggiungere” all’orario lavorativo, ma è parte sostanziale del proprio compito. Le strutture sanitarie devono organizzarsi per questo; deve passare il concetto, e la legge ora lo esplicita in maniera netta, che non si tratta di un adempimento burocratico e formale. Certo, la legge non può normare la relazione medico-paziente, sarebbe improprio, ma può e deve tracciare la cornice all’interno della quale tale relazione si può sviluppare».
Lo sforzo e l’obiettivo sono orientati a far sì che «la relazione terapeutica, quantunque asimmetrica, si mantenga “umana”, non – come lo definì il medico e filosofo Hugo Engelhardt – un rapporto tra “stranieri morali”. A fronte della tecnologizzazione della medicina, è necessario che essa rimanga il più possibile personale, empatica». Canestrari sottolinea come l’appena citato comma 8 sia legato al comma 10 dello stesso articolo 1, che dice: «La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative». Un tema cruciale, quello della formazione nell’ambito della comunicazione. La legge, spiega il giurista, «pone la questione della comprensibilità dell’informazione, della sua genuinità, ovvero la garanzia dalle manipolazioni e dell’accessibilità del linguaggio utilizzato per veicolarla oltre che delle modalità di comunicazione: un’informazione fredda e asetticamente veritiera, a seconda del tipo di malattia, può rafforzare la scelta terapeutica magari più gravosa, ma anche più efficace e comunque può indurre un atteggiamento più partecipativo e combattivo del paziente. Di converso, in altri casi può condurre ad atteggiamenti di rassegnazione, depressione, disperazione, persino a sfiducia nel sistema sanitario o a sentimenti di rabbia e rancore; occorre quindi un “accompagnamento all’informazione” quale aspetto o corollario della complessa relazione medico-paziente».
Un rimando alle istituzioni preposte alla formazione, in primis le Università e le Facoltà di Medicina, che porta il discorso anche sull’impegno svolto in questo senso dalla Fondazione Hospice MT. Chiantore Seràgnoli e da ASMEPA. «Nella realtà della Fondazione l’umanità, la consensualità della relazione terapeutica vengono perseguite tanto quanto gli obiettivi bene ci delle cure palliative», osserva Canestrari. «L’impegno costante di ideazione, l’investimento nella formazione continua dei medici e degli altri professionisti che operano all’interno degli ambiti sanitari in materia di relazione e di comunicazione con il paziente testimoniano che siamo di fronte a una delle esperienze più avanzate della pratica clinica».
LA 219: UNA LEGGE «DI PRINCIPI»
La riflessione di Canestrari si inquadra in un dibattito più ampio relativo alla legge n. 219 del 22 dicembre 2017, che mette al centro e va a normare il complesso ambito del consenso informato e delle disposizioni anticipate di trattamento in ambito clinico-sanitario.
Si tratta di una legge attesa da decenni, che affronta il tema con approccio anche “filosofico” oltre che strettamente giuridico, come osserva lo stesso Canestrari: pone infatti le basi di riflessione su quello che deve o dovrebbe essere la relazione che si instaura tra medico e paziente durante il percorso di cura. A partire dalla disponibilità e condivisione del tempo.