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«Sono laureato in Biologia e in Medicina, con una specializzazione in Oncologia. Forse per questa doppia formazione, o diciamo piuttosto per “deformazione professionale”, mi viene più facile descrivere il senso di quel che facciamo con un paragone preso proprio dal mio lavoro: che cosa fanno le cellule tumorali in un organismo? Non stanno sole, ma creano delle alleanze forti con il microambiente che le circonda, e, facendo crescere queste alleanze, via via riescono a dominare il corpo. Per combattere la malattia dobbiamo fare la stessa cosa: stringere alleanze forti tra noi professionisti – specialisti ospedalieri, palliativisti e tutte le figure che entrano nel percorso di cura – ma anche con il paziente stesso, i suoi familiari e tutta la sua cerchia di affetti e di relazioni. Questa alleanza allargata è il substrato sul quale il paziente costruisce la sua reazione e le sue certezze, non solo all’interno dell’ospedale».
A raccontare il concetto di “rete” come lo guardasse attraverso la lente di un microscopio è Toni Ibrahim, Direttore della Struttura Complessa Osteoncologia, Sarcomi dell’osso e dei tessuti molli e Terapie innovative dell’IRCCS Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna, all’interno della quale è stata avviata una collaborazione con i palliativisti della Fondazione Hospice Seràgnoli che aggiunge un tassello fondamentale a questo concetto di “alleanza organica”, costruita intorno al paziente e ai suoi bisogni.
«Oggi l’oncologia, così come le altre discipline che riguardano patologie con possibile esito infausto, è orientata
verso la medicina personalizzata. Un approccio che include la medicina di precisione – cioè quella che indaga gli elementi genetici – ma che va oltre, guarda al paziente come persona nella sua globalità, ai suoi bisogni fisici e
psichici, alle sue diverse sofferenze, considerando il macroambiente che lo circonda», spiega Ibrahim. «È evidente come questo approccio richieda un’organizzazione multidisciplinare e multiprofessionale: l’oncologo,
il radioterapista, l’oncoematologo, ma anche lo psicologo, il chirurgo… Il palliativista si inserisce così in modo del tutto naturale in questa presa in carico congiunta del paziente che, per funzionare bene, deve accompagnare durante tutto il percorso della malattia, fin dall’inizio e non solo nella fase
terminale».
L’idea e la finalità delle collaborazioni in consulenza avviate dai palliativisti della Fondazione Hospice con le Unità Ospedaliere come quella del dottor Ibrahim, all’interno della Rete regionale di Cure Palliative, partono proprio dalla comprensione del ruolo olistico, e non ancillare o appunto “terminale”, della medicina palliativa all’interno del percorso di cura. Oltre alla specializzazione professionale, Ibrahim riconosce come valore aggiunto del palliativista all’interno dell’équipe multiprofessionale «un occhio attento, che riesce a vedere cose che a noi specialisti a volte sfuggono». «I colleghi palliativisti mettono in campo una sensibilità insostituibile in tanti aspetti che riguardano il paziente nel suo insieme, dalla valutazione del sintomo alla gestione della sofferenza correlata sia alla malattia sia alle terapie, e questo ci fornisce un apporto fondamentale per valutare i rischi/benefici di qualsiasi scelta terapeutica. Ci aiuta a considerare i benefici intesi non solo come possibilità di sopravvivenza, ma anche come qualità di vita del paziente». Da questa esperienza di collaborazione emerge anche un altro contributo che i palliativisti apportano all’équipe allargata, un contributo «non scritto», sottolinea Ibrahim, ma che fa quasi parte del naturale DNA della professione: «Il palliativista ha anche un’altra missione rispetto a noi oncologi: ha gli strumenti per saper accogliere in questa logica di collaborazione multidisciplinare gli altri professionisti del percorso oncologico. L’attenzione alla persona che è propria del palliativista non è solo attenzione al paziente, ma anche alle sensibilità dei diversi professionisti che entrano nella dinamica di cura, dove sapersi confrontare, mettersi in discussione, comprendersi è fondamentale. Il palliativista, che ha nel suo background di formazione e pratica professionale il lavoro in équipe, facilita questo interscambio anche nel contesto ospedaliero dove non sempre è facile mantenere un dialogo aperto e collaborativo tra specialisti».
LE CONSULENZE OSPEDALIERE DELLA FONDAZIONE HOSPICE: LE CURE PALLIATIVE ENTRANO IN REPARTO
La Fondazione Hospice Seràgnoli svolge un servizio di consulenza in cure palliative a supporto degli specialisti e delle équipe d’ambito ospedaliero, per affiancare gli staff multidisciplinari e multiprofessionali dei reparti e delle unità operative portando le competenze e il valore aggiunto dei palliativisti. Si tratta di esperienze che via via si sono strutturate in diversi ambienti di cura (per esempio, con l’Istituto Ortopedico Rizzoli, il Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, l’Ospedale Bellaria), e che prevedono due tipi di attività.
La prima riguarda l’affiancamento degli specialisti ospedalieri nella gestione del sintomo non controllato e nella gestione del dolore: il palliativista della Fondazione Hospice si confronta con l’équipe di reparto, effettua una valutazione del paziente (che resta in carico all’ospedale), e imposta la terapia di controllo del dolore che accompagnerà il paziente durante il ricovero.
La seconda collaborazione riguarda pazienti con difficoltà o in condizioni di malattia grave al momento delle dimissioni: in seguito alle valutazioni e ai colloqui conoscitivi svolti in ospedale, il paziente (e la famiglia) vengono presi in carico dalla Fondazione, che, in continuità con la dimissione dal reparto, organizza il ricovero presso uno dei propri Hospice. Come spiega Carlotta Berzioli, referente dei servizi di consulenza della Fondazione Hospice, «lo scopo delle nostre relazioni con gli specialisti ospedalieri è collaborare nella valutazione e nel processo decisionale che riguarda i pazienti, per favorire l’avvio di percorsi di cure palliative in maniera precoce, evitando inutili trattamenti chemioterapici fino agli ultimi giorni di vita. Cerchiamo di far comprendere il vero valore delle cure palliative, ovvero portare un beneficio alla qualità di vita del paziente con prognosi infausta, e alla sua famiglia, accompagnandone anche il percorso di terapia. Entrare nei reparti ospedalieri e relazionarsi con i colleghi, con i pazienti e con i familiari, contribuisce a far comprendere meglio la funzione delle cure palliative: il palliativista non è il medico che “porta cattive notizie”, ma colui che può migliorare la qualità di vita residua dei pazienti».