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Un’infanzia a correre tra i tavoli del bar di famiglia, a Senigallia, genuinità marchigiana allo stato puro. Poi, la scelta di avviare, lui in cucina e la sorella Catia in sala, un chiosco-ristorante affacciato sulla spiaggia e sull’azzurro pallido dell’Adriatico. Avrebbe potuto rimanere così, uno dei tanti localini della riviera anconetana. E invece, quello di Mauro Uliassi è diventato nel giro di pochi anni un fenomeno: tre stelle Michelin conquistate e mantenute tenendo i piedi per terra, senza svolazzi da chef-divo, innamorato della materia prima e delle sue mille trasformazioni, della gioia di accogliere ogni sera «gourmand esperti ma anche semplici coppie o famiglie che magari hanno fatto qualche risparmio proprio per potersi fare il regalo di sperimentare la nostra cucina. Ed è straordinario immaginare che i nostri piatti e la nostra passione nel prepararli siano considerati dalle persone un regalo, qualcosa di speciale». Uno chef tri stellato che continua a saper dare il peso alle cose. Il giusto peso, e la giusta meraviglia, al mistero che racchiude questo umano piacere del “mangiare”.
Che cosa significa oggi, nell’Italia dell’anno 2022, mangiare?
È un fatto eminentemente legato al piacere. Non si mangia più con la fame contadina dei nostri nonni; il nutrirsi nel mondo Occidentale – per fortuna anche se purtroppo non ancora per tutti – non è più una necessità vitale quotidiana. Dall’ambito del bisogno, l’atto del cibarsi è passato a quello del desiderio. Per questo, intorno al cibo sono cambiati tutti i parametri: nutrirsi non è più un atto solo fisico ma è diventato anche un gesto intellettuale: vado al ristorante non per saziarmi, ma per soddisfare una curiosità, vivere un’esperienza, provare sensazioni.
In questo modo, l’atto più naturale per ogni animale, compreso l’uomo, non perde completamente la sua natura?
Tutt’altro, diventa ancora di più qualcosa che solletica l’istinto. Mangiare è, insieme all’eros, l’unica attività che coinvolge tutti e cinque i sensi. La vista, con i colori e le forme che mettiamo nel piatto e che stimolano il cervello a far produrre allo stomaco succhi gastrici e provocano l’”acquolina in bocca”; l’udito, con la musicalità del “crunch” di un cono croccante o di una patatina fritta; il tatto, che è ciò che tocchi con le mani ma anche con le labbra, con la lingua; il gusto, naturalmente, con i bilanciamenti di dolce, salato, aspro e amaro; e poi l’olfatto, il senso più etereo, che ci trasporta in un altro mondo. Ecco, il cibo oggi è diventato la ricerca di un momento di estasi. Un modo per spostarsi in un’altra realtà sensoriale, tutta nostra. Ricordate le madeleine di Proust?
Più o meno.
Proust era malatissimo, pieno di acciacchi e di disgrazie fisiche. Sente il profumo delle madeleine, i piccoli dolci che mangiava da bambino, e per un attimo tutto il suo male di vivere si annulla, dimentica la sua condizione e torna alla dolcezza leggera e spensierata dell’infanzia. Vive un momento di pura felicità, di dolcezza, di calore, di amore. Basterebbe riflettere su questo potere, per inventarsi mille cose belle che si possono fare attraverso il cibo. Magari partendo proprio dall’effetto che il buon cibo può avere per regalare un momento speciale a chi è malato.
Pollo strabollito e verdure sciape. Chiunque si immagina questo quando si accostano le parole malattia e cibo. Non è così?
È così, purtroppo, ed è tremendamente ingiusto. Fatte salve tutte le attenzioni agli equilibri dietetici e ai fattori nutritivi, perché mai in moltissime strutture di cura a chi è malato bisogna propinare cibo di così scarsa qualità, precotto chissà dove, che arriva freddo o quasi, e lasciare che le persone lo consumino sole, in una stanza? Certo, molti passi avanti sono stati fatti e anche la ristorazione ospedaliera oggi ha criteri di qualità importanti, però spesso si dimentica il perché sia così importante. Si dimentica che il piacere del cibo è un sollievo – magari anche solo momentaneo – alla sofferenza.
Proporre alla persona malata un piatto gustoso è come fargli una carezza a colazione, a pranzo e a cena.
E perché si trascura questo bisogno di buone carezze?
Perché, purtroppo, siamo immersi ormai da qualche generazione in una cultura che non vuole avere a che fare con la malattia, che la rifiuta. La civiltà dei sani vive e ragiona come se non esistesse l’altra metà dell’umanità che invece soffre. È un errore che facciamo tutti: io quando ho aperto il mio locale, che allora era poco più di un chiosco, mi sono trovato a litigare con chi, secondo la legge, mi costringeva a fare un bagno per le persone disabili. «Ma già non c’è spazio, perché diavolo devo fare un bagno per disabili? Quanti ne verranno mai, nel mio ristorante?». Ero davvero uno sciocco e oggi mi vergogno di quei pensieri. Ancora non avevo capito la cosa più importante di tutte, quella senza la quale il mio mestiere non ha senso. Il cibo è una porta sulla realtà e sugli altri, un collante sociale, uno strumento di inclusione. Stare a tavola è bello solo se è un atto condiviso. Altrimenti, stiamo solamente mangiando.