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«Tutti possiamo essere dei contaminatori». Questa è l’ultima delle parole che ti immagineresti di sentir pronunciare da un medico. Tuttavia, l’idea della “contaminazione” espressa da Silvia Tanzi, Medico Palliativista e Responsabile dell’Unità di Cure Palliative dell’Azienda Usl Irccs Reggio Emilia, è un’immagine calzante. Spiega lo spirito con il quale i medici “ambasciatori” della medicina palliativa stanno strutturando una specializzazione che cresce nella pratica quotidiana, pur non essendo ancora inquadrata in nessun curriculum accademico. Quella del palliativista, infatti, non è ancora una specializzazione prevista all’interno del percorso di laurea in Medicina e Chirurgia. Procede, appunto, attraverso la pratica, il progressivo riconoscimento del mondo medico e sanitario e grazie all’impegno formativo di chi – come l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa – lavora per strutturare competenze e fare delle cure palliative una cultura diffusa, in primis tra le équipe e le istituzioni sanitarie. «La figura del palliativista presuppone un ritorno al concetto classico di medico, che recupera – insieme alle competenze scientifiche e tecniche – anche quelle umanistiche che la professione ipertecnica di oggi ha un po’ perso per strada» osserva anche Filippo Canzani, Medico Palliativista, Dirigente presso la AUSL di Firenze. Daniela Celin, Direttore Sanitario della Fondazione Hospice Seràgnoli, entra poi nel merito, stringendo il più possibile l’obiettivo sugli aspetti tecnici della professione: «Il palliativista è un esperto nella gestione clinica di bisogni complessi, con specifiche capacità tecnico-professionali nel far fronte a una vasta platea di disturbi e alla gestione del dolore nelle sue varie fasi e nei diversi livelli di gravità. Sintomi che il paziente non manifesta mai singolarmente, ma che il medico è sempre chiamato ad affrontare in maniera combinata.
A questi, si aggiunge la “sofferenza esistenziale”, che è di per sé un disturbo», prosegue Celin, allargando il campo e sottolineando come per rispondere ai bisogni complessi della sofferenza esistenziale, il palliativista debba avere un elemento in più di attenzione umana verso il paziente e i suoi famigliari, fatto di capacità di ascolto e di comunicazione, oltre al necessario porsi in dialogo con la rete di cura che circonda questo tipo di pazienti, dal medico di famiglia agli specialisti ospedalieri. Ciò che il palliativista è chiamato a fare, continua Celin, è «quindi dare cure proporzionate rispetto alle condizioni del paziente in quel preciso momento, il che richiede ai professionisti una combinazione di formazione e di esperienza maturata sul campo». Sono tre i livelli di competenza relativi alle cure palliative presenti nel contesto sanitario, continua Celin. Il primo livello è detto “approccio palliativo” e presuppone almeno una conoscenza generica dell’esistenza delle cure palliative con le loro specificità.
«Le competenze relative a un approccio palliativo dovrebbero oggi essere possedute da tutti, medici, infermieri, operatori che lavorano in un qualsiasi contesto sanitario», dice Celin. Il secondo livello è quello delle cure palliative generali di base ed è relativo alle competenze in materia che dovrebbero possedere i medici di famiglia e i diversi specialisti (oncologi, ematologi, anestesisti, neurologi, nefrologi, cardiologi). Il terzo livello riguarda le cure palliative specialistiche ed è caratteristico dei medici che fanno fronte a bisogni complessi attraverso un’attività organizzata in équipe multiprofessionali. Dei palliativisti, insomma. Oltre a questi differenti gradi di profondità e di specializzazione, bisogna considerare anche i diversi contesti all’interno dei quali le cure palliative si trovano a essere applicate. «A seconda dei setting, cambia il vissuto del medico palliativista, ma non le specifiche della sua attività», spiega Canzani: «Una cosa è operare a domicilio, quando entri letteralmente nella casa di una persona, di una famiglia, altro quando si è in hospice, dove sono il paziente e i famigliari a trovarsi in un ambiente a loro estraneo.
Diverso ancora il setting ospedaliero, dove i ritmi sono differenti e quel tempo di qualità che dovrebbe essere assicurato al paziente – che è lo spazio di azione più qualificante per il palliativista – spesso non è previsto da una forma mentis organizzativa basata sull’attività per acuti, incentrata su ritmi più serrati e su interventi “in serie”, dove il riferimento è la figura del professionista e non l’équipe e spesso c’è un distacco netto tra la componente medica e quella infermieristica». Abituati a considerare le professioni come un insieme di capacità tecniche, si è portati a ridurre il palliativista a un medico con particolari competenze in ambito farmacologico oppure – come esplicita Canzani – «come colui che è specializzato nel gestire le fasi finali della vita del paziente. Si fatica ancora a capire che il palliativista, oggi, deve saper gestire la fase precoce della presa in carico del paziente.
Questo significa stabilire un rapporto di collaborazione e fiducia con il medico di famiglia, con gli specialisti d’organo, in pratica con quella sfera di professionalità – mediche e non – che accompagnano il paziente fin dalla diagnosi di malattia cronico-degenerativa o comunque già nella prima fase di terapia». Un concetto di equilibrio che sta pian piano prendendo piede e spazio anche in un contesto complesso come quello ospedaliero, dove il palliativista è ancora in molti casi visto come un marziano, qualcuno difficilmente incasellabile nella serrata quotidianità della vita di corsia. «Fino a non molto tempo fa in ospedale il palliativista veniva coinvolto solo per l’aspetto della gestione del dolore; ora partecipa, con gli altri specialisti, nei percorsi terapeutici e assistenziale condivisi col paziente-famiglia e con gli altri operatori: è il segno che qualcosa è cambiato e sta cambiando», osserva Tanzi. La contaminazione, insomma, sta iniziando a dare i suoi frutti.