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PRESA DIRETTA
Competenze
Indipendentemente dalla loro specializzazione, i medici in hospice devono avere competenze nell’ambito della medicina interna – capacità di diagnosi, di terapia, di trattamenti farmacologici, di follow-up.
La qualità in più
Il medico in hospice deve saper valutare il bisogno globale del paziente, ovvero le necessità cliniche, psicologiche, spirituali e di relazione, ad esempio con i propri famigliari.
L’équipe
L’attività in hospice è eminentemente un’attività d’équipe. L’osservazione del sintomo e la valutazione della condizione globale del paziente passa attraverso una relazione che riguarda tutto lo staff nelle diverse modalità di interazione col paziente.
L’orizzonte
Il medico che opera nelle cure palliative deve essere in grado di interfacciarsi con tutta la “rete allargata della cura” che riguarda i pazienti (specialisti d’organo, medici ospedalieri, medici di base), per una presa in carico sempre più precoce.
La ricerca
Le cure palliative sono una disciplina medica ancora “giovane”. Per questo, responsabilità del palliativista è lavorare, dal punto di vista della ricerca e della didattica, per far crescere la solidità scientifica di questo ambito.
Se dovessimo cucire un’etichetta sul camice di un medico dell’hospice sarebbe molto difficile dare – oggi – una definizione. Perché si tratta di un ruolo di confine, che si trova a fare i conti con dei limiti che il medico stesso è chiamato a spostare sempre più in là. Allargando il raggio d’azione delle cure palliative e contribuendo a costruire, con solida base scientifica, una cultura che in questo ambito è ancora giovane e non chiaramente incasellata nei percorsi accademici della professione.
«Il palliativista è un internista umanista», prova a sintetizzare Matteo Moroni, Responsabile Medico presso l’Hospice Bentivoglio della Fondazione Hospice Seràgnoli: «è cioè un medico che si trova ogni giorno a mettere in campo forti competenze di medicina interna – la diagnosi dei sintomi, la prescrizione della terapia, il follow-up – unite ad alte competenze culturali e umanistiche, in primis la capacità di ascoltare e di comunicare.
Comunicare con il paziente e con i suoi famigliari, con i colleghi d’équipe – perché questo è, e resta, un lavoro d’équipe –, ma sempre di più con quella “rete allargata della cura” che sta fuori dai confini dell’hospice: medici specialisti, oncologi, pneumologi, ematologi, radiologi, gli sta degli ospedali, ma anche i medici di base».
«È l’aspetto straordinario di lavorare in un ambito, come quello delle cure palliative», conferma Daniela Celin, Direttore Sanitario della Fondazione Hospice Seràgnoli, «nel quale ogni giorno costruiamo il presente e il futuro. Questa è una responsabilità, ma anche una sfida entusiasmante». Il profilo che emerge è quello di un professionista capace di sviluppare una competenza e un linguaggio che gli consenta di «parlare con gli specialisti di tutte le discipline comprendendo e soprattutto mettendo gli altri nella condizione di comprendere», continua Moroni. «Il che non significa banalmente essere un bravo comunicatore, ma avere e saper disporre di strumenti ed evidenze scientifiche sulla base delle quali codificare le condizioni del paziente e della sua qualità di vita in maniera sempre più precoce rispetto al decorso della malattia. Rompere insomma quel meccanismo per cui il paziente viene “trasferito” dallo specialista allo staff di cure palliative solo quando “non c’è più niente da fare dal punto di vista clinico”, come culturalmente tanti medici sono abituati a dire. Bisogna che intorno al paziente si attivi da subito una rete di cura composta sia dallo specialista ospedaliero sia dallo sta dei palliativisti». Il tutto, naturalmente, continuando a “fare” il medico, ovvero ad avere la responsabilità clinica, diagnostica e terapeutica dei pazienti in un contesto fragile e delicato come quello dell’hospice, dove spesso a contare sono i minuti e non i giorni, dove situazioni stabili da settimane possono precipitare in poche ore o avere dei miglioramenti inaspettati e – dal punto di vista strettamente diagnostico – spesso quasi inspiegabili. Ecco perché in hospice il medico non può essere «semplicemente un medico», ovvero un grande professionista dei meccanismi fisiologici. Deve saper anche andare oltre i riscontri di un macchinario o di un manuale. La figura che emerge da questo quadro è una tipologia di medico assolutamente d’avanguardia, ma che, a ben guardare, è al contempo antichissima.
Quasi un ritorno alle radici, ai fondamentali della professione, a Ippocrate e altri padri della medicina. A quella missione del «prendersi cura» che è infinitamente più alta e più completa del semplice «curare», verbo da cui è derivata nell’ultimo secolo tutta quella frammentazione in discipline ultra-specialistiche utilissime per affrontare le sfaccettature delle singole patologie, certo, ma che forse in parte hanno fatto perdere di vista quello che è l’obiettivo fondamentale del mestiere: far sì che la persona resti persona, con la sua dignità, qualunque sia la fase specifica o il decorso della malattia. «Recuperare questa dimensione umanistica dell’essere medico è – soprattutto oggi – un grande valore che le cure palliative possono portare e mettere al servizio della professione», spiega Moroni.
Il medico è da sempre inteso come colui che guarisce il malato e se non lo fa in qualche modo fallisce il proprio scopo. Le cure palliative rivoluzionano questo approccio: «Come medici, siamo chiamati a spostare l’attenzione dalla malattia alla persona, il nostro mestiere non è sconfiggere la malattia, è garantire al paziente una vita di qualità, qualunque essa sia in quel momento», sottolinea Carla Negretti, Medico presso l’Hospice Bellaria. «Questo richiede competenze cliniche di altissimo livello, la responsabilità nella prescrizione delle terapie farmacologiche, uno sforzo teorico e di ricerca enorme nel dare basi sempre più scienti che a una disciplina che costruiamo giorno per giorno». Il che implica anche, per il medico, la capacità (e il dovere) di sviluppare metriche di misurazione del proprio operato, ovvero unire attività clinica e attività di ricerca con una visione umanistica. È questo elemento impalpabile fatto di sensibilità personale a fare la differenza. «In hospice anche a parità di sintomi ogni risposta è differente», conferma Negretti: «si guarda alla persona, non alla statistica e non ci possono essere rigidità di protocolli da attuare a prescindere. I protocolli ci sono, è, anzi, nostro dovere implementarli, farli crescere, ma al centro deve rimanere la persona-paziente. Una frase fatta, ma non scontata, del nostro settore dice che “in una medicina basata sui numeri, il medico palliativista conta fino a uno”.
Dobbiamo ricordarci che siamo di fronte a persone, non a “casi” e ogni individuo, in quanto tale, è unico. Nella scelta della terapia il medico in hospice deve tener conto anche del contesto familiare e sociale del paziente, mediare tra quella che in astratto è la terapia migliore e le attese dei famigliari, perché deve preservare con le proprie decisioni il clima di serenità che circonda il paziente e che è parte della cura». Rispondere al bisogno particolare con una visione globale, curare prendendosi cura, misurare il proprio operato e personalizzare le scelte terapeutiche, ecco il punto di equilibrio che, al di là delle specializzazioni professionali, caratterizza il mestiere. Difficile riassumerlo in un’etichetta da cucire sul camice.