Scarica il numero
Il tema intercetta i radar dell’opinione pubblica quando il riflettore illumina situazioni che i media definiscono “estreme”, come i casi dei piccoli Charlie Guard, Alfie Evans, Archie Battersbee, Indi Gregory, solo per citare i più recenti. Puntualmente il dibattito si polarizza, lasciando spesso poco spazio a una riflessione ponderata: esiste, per bambini e adolescenti in una condizione di gravissima patologia cronica e incurabile, la linea di confine tra cura e accanimento terapeutico? Dove si posiziona il limite fra “trattenere” e “lasciare andare”?
Le situazioni estreme, lo dice la letteratura, in ambito pediatrico sono più numerose di quelle riportate dalla cronaca. E sono queste le domande che si pongono, ogni giorno, migliaia di medici ai quali viene chiesto l’impossibile, e genitori di piccoli pazienti che approdano a questo confine dopo lunghi percorsi di angoscia e sofferenza. Domande sulle quali si interrogano anche la politica, la giustizia, la filosofia, l’etica, la scienza. “Affrontare questa domanda”, dice Alberto Giannini, direttore dell’Unità operativa di Anestesia e Rianimazione Pediatrica degli Spedali Civili di Brescia e Responsabile del Comitato Etico della Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI),
“significa confrontarsi con il tema del limite, che la nostra società ha pensato di poter rimuovere. I traguardi impensabili che, negli ultimi trent’anni, la diagnostica e la medicina hanno raggiunto, ci hanno abituato a spingere sempre un po’ più in alto l’asticella della guaribilità, dandoci aspettative irragionevoli nei confronti della medicina intesa come strumento per guarire. Per questo, quando ci troviamo in situazioni nelle quali così non è, e soprattutto quando questa condizione riguarda un bambino, la nostra (falsa) convinzione va in crisi, e con essa tutto il nostro sistema di pensiero. Non solo. Oltre alla valutazione dell’efficacia clinica, c’è poi un altro limite che fatica a entrare nella riflessione: il limite di accettabilità delle cure. Non sempre, infatti, ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente accettabile”.
Non esiste pertanto una formula matematica che consenta di definire in maniera univoca e universale, e tanto meno a priori, la “proporzionalità della cura”. Una terminologia che, introducendo un elemento non misurabile, in realtà mette in luce tutta l’umanità di cui hanno bisogno la competenza, la tecnica e la tecnologia medica per costruire risposte spendibili in casi complessi.
Come spiega Giannini, infatti, nel definire se e quanto una terapia è proporzionata occorre mettere sul piatto della bilancia due elementi diversi: l’appropriatezza di una cura e la sua gravosità.
“La valutazione dell’appropriatezza spetta all’équipe medica, che della terapia considera l’idoneità, l’efficacia, la probabilità di successo, la durevolezza del risultato, la sua attuabilità e le sue complicanze. La gravosità, ovvero le sofferenze e gli oneri psicologici, familiari e sociali che questo percorso comporta, viene invece riferita dal paziente o, nel caso di un bambino, dai suoi genitori. Quanto e come una cura sia proporzionata lo si definisce quindi all’interno di una relazione di dialogo, sedendosi e confrontandosi. È una dinamica che si aggiorna e si modifica con l’evolvere della condizione del paziente, non è una decisione puntuale. È costosa, in termini di fatica umana e psicologica e rispetto al tempo e all’impegno che richiede, alla tensione e alla sofferenza che porta con sé. Ma che deve essere affrontata”.
Oltre i dettami normativi, etici e deontologici e i protocolli di valutazione legati alle diverse patologie e alla progressione di malattia, ciò che
Giannini porta come spunto di riflessione sul tema del limite in medicina “sta in un testo redatto dalla Società Americana di Pediatria”, spiega, “e
propone una formula che trovo interessantissima. Come medici dobbiamo chiederci ogni giorno se certe cure o trattamenti vengono fatti “al bambino” o “per il bambino”. Se la risposta è “al bambino”, significa che stiamo agendo in modo irragionevole, non proporzionato. L’unica risposta, motivata in modo onesto, che ci autorizza a cominciare o proseguire un trattamento non può che essere: per il bambino”.