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«Io non mi abbasso a parlare con i miei piccoli pazienti. Mi innalzo verso di loro». A dare ancora più forza a queste parole è la fisicità con cui Momcilo Jankovic, pediatra ed ematologo, ti accoglie. Una statura significativa, fisico asciutto che lo fa sembrare ancora più alto, baffi. La stessa fisicità – segnata da un sorriso sereno – con cui da oltre quarant’anni accoglie e accompagna i suoi pazienti e i loro genitori, bambini, adolescenti, ragazzi che vivono malattie neoplastiche (per lo più, leucemie) in diverse fasi di progressione, spesso anche molto avanzate.
Quell’«innalzarsi» dice tanto, tutto. Spiega la ricerca delicata di un dialogo e di una comunicazione che parte dal principio di porsi sul piano dell’altro. Anche quando “l’altro” è un bambino di 5 anni o di 10, abituato «a vivere ogni giornata come fosse un’intera vita», dice Jankovic, in una situazione diagnostica gravemente compromessa. Quello della comunicazione nel campo delle cure palliative pediatriche è un tema complesso e fa parte di una filosofia di approccio che inizia dal dialogo tra équipe sanitaria, giovane paziente e famiglia e si allarga a tutte le relazioni e i contesti sociali all’interno dei quali si sviluppa ogni storia di malattia che riguarda un minore. Quando in gioco c’è un bambino con scarse speranze di guarigione, si aprono in tutti i soggetti coinvolti – équipe sanitarie comprese – interrogativi esistenziali profondi.
«La diagnosi è un nome, una parola. Quel che sta accadendo a quella giovane vita e a chi gli sta intorno non si esaurisce lì. È il progetto di cura l’elemento che noi professionisti attraverso la comunicazione dobbiamo saper comunque proporre e valorizzare. Non sempre – purtroppo – vuol dire progetto di guarigione, ma comunque significa far vivere bene al bambino e alla sua famiglia quel che è concesso vivere», sintetizza Jankovic. «Il dialogo con entrambi i soggetti, la famiglia ma anche il bambino, in questo è fondamentale. Dialogo che significa condivisione. Parlare con il bambino vuol dire fargli capire, usando per esempio una metafora, quel che gli sta succedendo. I bambini hanno paura non del fatto in sé, della malattia se ne fregano», lo dice con una dolcezza assoluta, di uno che è ammirato della forza e del coraggio di tanti piccoli, «ma di quello che non sanno e comunque percepiscono. Dobbiamo essere onesti nel dare al bambino un messaggio che sia comprensibile, che gli tolga l’angoscia che quel che gli sta capitando sia “colpa sua”. Non illuderli, ma coinvolgerli nella battaglia che stanno affrontando: è una forma di rispetto della loro intelligenza. Tanti bambini, che sanno benissimo quel che sta accadendo loro e intorno a loro, anche se gli adulti cercano di dissimulare, mi chiedono: “Dottore, perché la mia mamma è diventata così brutta in queste settimane?”. Hanno già capito tutto. Aprendo questo dialogo con il bambino, non invado lo spazio intimo del rapporto tra il piccolo paziente e i genitori, anzi», spiega Jankovic. «A me interessa parlare con i bambini – con il consenso dei genitori – per aprire la comunicazione all’interno della famiglia.
Avere il medico come “complice” è un appiglio per quelle domande che il bambino pone ai genitori, cui loro non sanno – giustamente – rispondere. Anziché arrampicarsi sugli specchi, meglio dire «Ecco, questo lo chiediamo al dottore la prossima volta», in un percorso in cui il bambino è partecipe e coinvolto». Ma se il triangolo bambino-famiglia-staff medico è il nucleo centrale della dinamica dei percorsi di cure palliative pediatriche, intorno a questo nucleo è necessario ci sia – o si crei – un ecosistema coordinato di attori, di strumenti, di pratiche. «L’azione di rete è la base indispensabile per la strutturazione di un percorso di cure palliative, a maggior ragione se parliamo di cure palliative pediatriche. Rete che deve essere “socio” e “sanitaria”: tengo a sottolineare il valore di entrambi questi termini nel percorso. Un’accoppiata obbligatoria», sottolinea Sergio Amarri, pediatra e direttore della Pediatria presso Azienda Ospedaliera IRCCS Santa Maria Nuova Reggio Emilia. «Attuare un coordinamento efficace tra risposta sanitaria e risposta sociale ai bisogni dei pazienti pediatrici e delle famiglie non vuol dire solo adempiere a un presupposto di legge, ma significa poter garantire alla famiglia un percorso di vera e concreta advocacy, ovvero di sostegno, di aiuto, di supporto».
La prospettiva, anche quando si parla di rete socio-assistenziale territoriale, discende da quello stesso principio dell’ “innalzarsi” da cui questo ragionamento è iniziato. Ovvero, partire dal bisogno del bambino: «Il bambino rimane tale se lo si riesce a mantenere il più possibile in una condizione di “normalità”, permettendogli di stare al proprio domicilio, di andare a scuola, di giocare con amici e compagni, nei limiti di quel che il progredire della malattia consente. Prevedere poi che anche negli altri setting – ospedale, hospice – si preservino le attenzioni al suo essere bambino e al contempo essere un paziente “complesso”.
Ospedale, assistenza domiciliare, hospice, per quanto riguarda l’aspetto assistenziale, ma anche i servizi sociali territoriali, i servizi amministrativi, quelli scali, se guardiamo agli aspetti sociali, sono tutti nodi di quella rete di tutela che dobbiamo essere in grado di offrire ai pazienti e alle famiglie per supportarli in maniera compiuta».
In questa ottica, da un anno la Regione Emilia-Romagna ha avviato un percorso volto a “fotografare” tutti i nodi della rete già esistenti e attivi provincia per provincia, quali siano le esperienze più interessanti, quali richiedano di essere consolidate. «Dalla fotografia», spiega Amarri, che coordina questo processo, «dobbiamo ora fare un film, ovvero mettere in movimento sinergico tutte queste risorse». Con una consapevolezza: il centro di questa rete, osserva Amarri, è la famiglia, che «sa guardare in maniera allargata alle priorità del bambino e, quindi, esprimerne i bisogni». Solo a questo punto la rete interviene, con i suoi diversi nodi, per affiancare la famiglia in questa difficile battaglia.