Scarica il numero
Siamo abituati ad accompagnare (e, spesso, esaltare) la trasformazione digitale in atto applicando a ogni piè sospinto alla tecnologia un aggettivo in voga, ma ambiguo: “disruptive”. Come se la tecnologia digitale non potesse essere altro che un elemento destinato a rompere, a creare fratture, buttando a mare tutto il resto, tutto l’“analogico” sul quale l’umanità ha costruito la sua storia e l’uomo il suo essere. Nel caso dell’e-health ragionare in termini di disruption non solo non è corretto, ma porta addirittura clamorosamente fuori strada. La telemedicina, come prosaicamente possiamo tradurre il termine in italiano, non si pone infatti come un “o…o” rispetto alla medicina in presenza, ma si propone come componente aggiuntiva in un quadro di relazione olistica tra il malato e chi lo cura. È un “e…e” che aggiunge valore e dà nuove chiavi interpretative al rapporto e quindi al percorso di cura.
«Chi approccia il tema dell’e-health privilegiando la chiave dell’antagonismo si pone fuori dalla realtà», esordisce Mario Ricca, esperto di diritto interculturale e ordinario di Diritto ecclesiastico presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, che ha portato le sue riflessioni
sugli sviluppi della tecnologia informatica nella pratica sanitaria in un densissimo seminario tenuto con l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa durante il Congresso SICP 2020. «Il cuore della riflessione sull’e-health riguarda piuttosto la possibilità di utilizzare gli strumenti informatici per generare pratiche di prossimità tra personale medico e pazienti. Io preferisco infatti tradurre “e-health” come “cura a distanza”, perché con questa formula si focalizza immediatamente il fenomeno chiave di questa disciplina: la distanza. Una distanza che, grazie alla tecnologia, si polverizza, si annulla. Il corpo del malato e lo sguardo – ma non solo quello – del medico imbastiscono nuovi modi di sperimentare e sfruttare la prossimità, a dispetto della lontananza fisica e spesso geografica. L’altrove patologico e l’altrove terapeutico si fanno prossimi, convertendo l’ubiquità comunicativa garantita dai processi informatici in una mutua presenzialità e attualità».
Da tema tecnicistico, l’e-health svela così il suo contenuto profondamente umano e filosofico – questa volta sì, davvero disruptive – riportando il tema della cura e della medicina alla sua radice più essenziale. E assume un valore ancora più alto proprio nello specifico delle cure palliative. «L’e-health colloca la presenza del medico che offre cure palliative all’interno dell’esperienza di malattia in maniera costante», spiega Ricca, «permette una prossimità che – se pur non corporea, tattile – consente tuttavia di espandere il rapporto medico-paziente: è una proiezione dello sguardo del medico nello spazio di vita del paziente, nelle sue relazioni contestuali. Il luogo
all’interno del quale il malato vive, la sua casa, quel che vede dalla finestra, gli oggetti che ha intorno a sé, i rumori e le voci che lo circondano diventano lo spazio in cui si ricostruisce la relazione con il medico che, in effetti, non è mai, principalmente, uno spazio fisico, ma informativo; è l’insieme delle informazioni personali e di contesto che strutturano la relazione e il percorso di cura».
Le tecnologie di relazione a distanza, in primis i sistemi di video connessione, consentono un diverso accesso interpretativo al paziente e al suo contesto permettendo una disambiguazione del dolore necessaria nelle fasi di anamnesi, di diagnosi e nella gestione della malattia.
«È scientificamente provato come la modalità di gestione del dolore che entra in gioco nell’esperienza di malattia abbia effetti sullo stesso decorso della patologia. Non sono due realtà separate, questo va compreso prima di mettersi a discutere degli strumenti con i quali si opera tale gestione». È su questa correlazione che si evidenzia e si misura l’utilità dell’e-health.
La connessione da remoto non sostituisce, anzi, moltiplica le opportunità di rapporto con il paziente: «Spazio e tempo sono collegati», sottolinea il professore, «il percorso di relazione si fa più dinamico. È un cambiamento dei parametri temporali che è anche cambiamento concettuale. Perché si supera il concetto della medicina riduzionista, secondo la quale l’intera intrapresa medica ha come fine la riduzione del dolore o l’eliminazione della malattia, ma ci si mette in un’ottica secondo la quale “in principio era il dolore”. Il mestiere del medico quindi consiste nel leggere questo dolore per dargli un senso, contestualizzandolo. Questo è possibile solo se crescono le occasioni di relazione».
La sfida, per i medici e gli operatori sanitari, è quindi vivere la distanza non come separazione, ma come relazione organica, funzionale e produttiva rispetto alla relazione in presenza, in un continuo scambio di arricchimento costruttivo. «Dobbiamo cercare di trasformare la dimensione dello spazio virtuale non in una sorta di acquario distante dalla realtà, come accadeva un po’ con i nostri nonni quando guardavano la televisione», conferma Ricca, «ma come un continuum che si innesta
nello spazio dell’esperienza quotidiana: per fare questo bisogna comprendere che la nostra percezione corporea non è tanto fondata sul corpo, quanto sull’interpretazione del segnale corporeo che percepiamo. Cioè, è un segno.
Ci sono studi interessantissimi che riguardano le carezze: se ci accarezza una persona alla quale siamo legati con rapporti affettivi, piuttosto che uno sconosciuto, le reazioni cerebrali sono differenti. In relazione a ciò che noi sappiamo, produciamo reazioni completamente diverse a livello percettivo. Noi percepiamo ciò che sappiamo. Il tocco di un malato di cui sappiamo molte più cose grazie alla relazione costruita a distanza nel suo spazio di vita, è parte di un tutto che non si vede, ma è tanto importante quanto ciò che si vede, e colma questa relazione di significato».