Scarica il numero
In “Ultima madre”, uno dei suoi libri di maggior successo, Sonia Ambroset scrive: «Meglio cercare di coglierne anche la bellezza e l’armonia. Meglio incontrarla ogni giorno, piuttosto che trovarsela davanti di sorpresa come una sconosciuta». Il soggetto della frase è la morte che nella prosa delicata dell’autrice sveste la negatività dei panni abituali per diventare, sotto una nuova luce, una madre. Capace di generare, non più (o solo) di privare. Sonia Ambroset, psicologa clinica e formatrice, con un percorso professionale che l’ha portata a confrontarsi con il mondo delle carceri, delle comunità psichiatriche e anche della realtà delle cure palliative, fa della parola-guida di questa sezione del giornale, Accogliere, il filo conduttore della sua riflessione sul valore delle cure palliative oggi. Uno «strumento di valore» non solo per le persone malate e per i loro famigliari, ma per tutta la società. Un richiamo a «incontrare ogni giorno» quel limite che la vita contiene fin dal suo nascere e a renderlo generativo. «Saperlo accogliere», dice.
«La scoperta delle cure palliative, per me, ha significato la scoperta del dolore non solo come dimensione fisica, ma come dimensione globale. Il dolore nelle fasi ultime della vita nasce dalla consapevolezza di dover affrontare la perdita dell’esistente, di trovarsi a fare i conti con l’ignoto. Per tutta la vita ci prepariamo per dare a questo momento una risposta, chi attraverso percorsi spirituali o di fede, chi attraverso percorsi filosofici; ma poi, davvero, non sappiamo cosa ci attenda “dopo”. È solo quando si arriva a fare il bilancio della propria vita che si affronta davvero il significato di questo passaggio in tutta la sua intensità. Spesso, ci si accorge di qualcosa che rimane in sospeso. Il dolore globale nasce da questa presa di consapevolezza, dall’ansia di voler portare tutto a compimento, per chiudere il ciclo della vita in armonia». Ambroset ha affiancato ai suoi studi una significativa pratica accanto ai pazienti lavorando con équipe di cure palliative e il suo pensiero si è sviluppato anche sulla base di questa esperienza nella vita reale. «Che senso ha avuto tutta la mia esistenza?» È la domanda che spesso sorge quando non c’è più il tempo per rispondere. Avvicinarsi alle cure palliative dal punto di vista culturale significa imparare a fare i conti con domande come questa, con una condizione di ricerca di senso profondamente umana.
Una riflessione, quella che Ambroset propone a partire dal vissuto delle cure palliative, che va al di là dei singoli contesti di malattia o di cura. Guarda alla capacità di accogliere un percorso di pensiero diverso, più alto e aperto. «Ci sono due riflessioni da fare, per affrontare il tema da questa angolatura.
Primo, la cultura occidentale è una cultura “cartesiana”, che ha costretto in due contenitori separati razionalità ed emozioni. Ma si tratta di due elementi estremamente connessi della personalità, in una visione dell’essere umano che deve essere globale. Dove non arriva il corpo, arriva il cuore e viceversa.
Secondo elemento: nella cultura occidentale la morte fino a un secolo fa era parte integrante della vita, stava nell’esperienza del vivere. I progressi enormi fatti nel campo medico e farmaceutico ci hanno dato l’illusione che la medicina possa guarire sempre. Per questo quando ci troviamo in situazioni dove non c’è guarigione rimaniamo spiazzati, disarmati. Le cure palliative vanno oltre questo limite: ci dicono che esiste un curare che va al di là del guarire, che c’è una persona al centro del processo di cura con bisogni che non sono solo fisici e che le équipe assistenziali devono saper rispondere a questa completezza. È importante recuperare una capacità di visione olistica della persona». Ciò che emerge è la prospettiva delle cure palliative in grado di accogliere la persona nella sua interezza. Un passo in più da conoscere e diffondere che rappresenta un grande valore aggiunto per l’intero contesto medico-assistenziale, non solo per l’ambito ristretto dei palliativisti e delle strutture che si occupano di cure palliative.
Qui Ambroset procede verso la terza declinazione fondamentale dell’accogliere. «Il lavoro di diffusione di una cultura delle cure palliative svolto dalla Fondazione Hospice MT. Chiantore Seràgnoli attraverso l’Accademia delle Scienze di Medicina Palliativa, è fondamentale», sottolinea la psicologa: «Costituisce un valore non solo per il paziente, per le famiglie coinvolte, per gli operatori della cura, ma anche per l’intera la società. Rappresenta il recupero di una riflessione più ampia e completa del vivere. Per questo, bisogna rafforzare la capacità di contatto diretto con le comunità territoriali, con la società civile. Il mondo delle cure palliative deve stimolare occasioni per dialogare con il “mondo fuori”. È quello che avviene da tempo con i programmi di Death Education nelle scuole di molti Paesi europei e negli Stati Uniti e che si sta affacciando timidamente soltanto ora in Italia. Noi operatori del settore dobbiamo imparare a esporci di più, non parlare solo al mondo della medicina, ma metterci a disposizione per farci accogliere dalle persone comuni. Più che accogliere, il mondo delle cure palliative deve imparare a farsi accogliere, a farsi ospitare. Per diventare un motore di crescita della società».